Gatti, il mister con la vittoria nel Dna

L'allenatore dell'Inveruno, torinese trapiantato a Varese, ha conquistato campionati in tutte le categorie in cui ha lavorato. Ora è all'Inveruno e predica il bel gioco, sostenuto dall'affetto dei suoi giocatori

Un allenatore come pochi. Sincero, diretto e, forse anche per questo, vincente. Roberto Gatti, torinese di nascita ma varesino di adozione (vive a Vedano Olona), quest’anno sta guidando l’Inveruno ad una storica e molto positiva stagione in serie D, dopo aver raccolto vittorie e promozioni in quasi tutte le squadre che ha allenato.
 
Mister Gatti, ci racconti la sua storia con il pallone tra i piedi.
«Io sono di Torino e sono cresciuto nella squadra del Barcanova, scuola calcio che ha cresciuto grandi giocatori. Ho giocato lì fino a 17 anni, quando mi prese il Varese. In biancorosso ho passato cinque anni, poi sono andato in Svizzera, prima al Lugano e poi al Chiasso, ma ho smesso presto, a 30 anni, per dei problemi alla cartilagine del ginocchio».
 
E come ha iniziato ad allenare?
«Finita la carriera da calciatore, il Chiasso mi ha chiesto subito di sedermi in panchina, iniziando dal settore giovanile e arrivando alla prima squadra, allora in Prima Divisione. Mi sono poi trasferito al Lugano, dove ho seguito la Primavera e per un breve periodo anche la serie B elvetica, finendo la stagione dopo l’esonero di Giuliano Sonzogni. Dopo un’altra esperienza al Chiasso sono arrivato in Italia, partendo dal Mozzate, poi sono stato ad Arona, a Vanzaghello, a Marnate, una piccola parentesi a Mendrisio e ora, da due anni sono all’Inveruno».
 
Tutte queste avventure hanno un aspetto in comune: lei ha sempre vinto. Qual è il segreto?
«Nessun segreto. Ho semplicemente sempre avuto la fortuna di allenare ragazzi straordinari. Non mi è mai capitato di avere in mano squadra complicate, ma sono sempre riuscito ad instaurare un ottimo rapporto con i gruppi con cui ho lavorato. Certo, non posso negare che i buoni risultati aiutano ad avere buoni rapporti».
 
È questo che sta spingendo l’Inveruno così in alto in serie D?
«Anche questo. I ragazzi sono bravissime persone, educate e rispettose di tutti, fuori e dentro al campo. Poi devo dire che sono dei giocatori forti, l’intelaiatura è la stessa che l’anno scorso ha vinto Eccellenza e Coppa Lombardia, in estate abbiamo messo a segno qualche innesto ponderato e questo ci ha permesso di fare così bene nel girone di andata».
 
E ora?
«Siamo a 35 punti, il primo obiettivo, la salvezza, è a 42 e vogliamo raggiungerlo quanto prima per poi pensare magari a qualcosa di più importante. Il girone di ritorno sarà sicuramente più complicato, un po’ perché le squadre di bassa classifica non concederanno più nulla, anche in cerca di un punto, e poi non potremo più contare su quell’effetto sorpresa di inizio anno».
 
Com’è la serie D?
«Ci sono compagini molto organizzate e i giocatori fanno, chi più chi meno, solo quello, diventando praticamente dei professionisti. È un livello discreto, "bloccato" però dall’obbligo di impiego dei giovani; dall’anno prossimo però, con la Lega Pro unica, anche il nostro campionato avrà dei benefici così come le categorie inferiori».
 

E il suo gioco qual è?
«Non invento nulla di nuovo, i principi offensivi e difensivi sono sempre gli stessi. Devo dire però che in Svizzera ho imparato che il bel gioco paga: noi cerchiamo sempre di portare quanti più uomini possibile in zona gol per costruire più occasioni ma anche divertire il pubblico, aspetto non troppo praticato in Italia. L’organizzazione difensiva è abbastanza semplice da effettuare, il lavoro sugli schemi d’attacco invece richiede più tempo; è più lungo ma anche più bello».
 
Lei ha una caratteristica particolare: i suoi giocatori la amano, gli avversari invece non la vedono di buon occhio. Come mai?
«Posso dire, come accennato prima, che con i miei ragazzi ho sempre legato molto e sono sempre riuscito a farmi voler bene, ma anche perché ho sempre lavorato con gente intelligente. Sugli avversari non so dire, ma non mi interessa più di tanto».
 
«Scandroglio con me ha avuto un buon rapporto anche se, soprattutto il secondo anno che l’ho avuto, non lo facevo giocare molto. Dalla panchina però lo esortavo a parlare, avevo già intuito che avrebbe voluto intraprendere la carriera di allenatore e per me ha tutto per arrivare in alto. Purtroppo però devo dirgli che non potrà essere il primo allenatore nero in serie A: Seedorf gli ha bagnato il naso». 

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Pubblicato il 30 Gennaio 2014
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