“Il teatro è un antidoto contro l’imbecillità della tv”
Intervista all'attore Moni Ovadia che venerdì 17 gennaio porterà in scena al Teatro Apollonio "Cabaret Yiddish". «Il teatro puo’ fare molto perché, nonostante sia finzione, è uno dei pochi luoghi in grado di rivelare la verità»
«Lo yiddish non ha grammatica, viene parlato senza sosta e non trova pace. Tutto questo tedesco, ebraico, francese, inglese, slavo, olandese, rumeno e perfino latino che vive in esso è preso da curiosità e da leggerezza, ci vuole una certa energia a tenere unite le varie lingue in questa forma». Così Franz Kafka descriveva alla borghesia ebraica praghese la mamelushn, ovvero la lingua madre.
Dopo la Shoah, lo yiddish, la lingua parlata dalle comunità ebraiche dell’est e del centro Europa, ha rischiato di perdersi per sempre. Con lo sterminio del popolo ebraico da parte dei nazisti e la distruzione dei circa diecimila Shtetl, le piccole cittadine dove vivevano la maggior parte degli ebrei, era scomparsa quella straordinaria energia vitale che alimentava la più giovane lingua europea. Oggi lo yiddish sopravvive nel teatro, nella musica e nella letteratura, grazie all’opera di chi, come Moni Ovadia, da molti anni porta sul palcoscenico una parte di quel mondo andato perduto.
«Il fatto che oggi lo yiddish sopravviva nell’arte è quasi un paradosso, se pensiamo che prima della seconda guerra mondiale era parlato da più di sei milioni di persone, cioè più di tutti gli abitanti attuali della Danimarca. Un sabra (un ebreo nato in Israele, ndr) è quanto di più lontano possa esistere rispetto allo yiddish, forse perché è la lingua della diaspora, dell’esilio, che non sarebbe mai nata in un contesto nazionale. Comunque è parlato quotidianamente da alcune comunità ortodosse che mutuano espressioni e colori di altre lingue, lo yiddish può esistere solo se fa questo tipo di operazione. In Israele non ha avuto vita facile, anche uno come il primo ministro Ben Gurion, considerato uno strepitoso conoscitore dello yiddish, gli ha fatto la guerra a colpi di circolari. Insomma, è una vecchia storia: ci si accanisce sempre contro i fragili, i vinti e i poetici».
Lei porterà in scena al Teatro Apollonio lo spettacolo “Cabaret yiddish”. È in qualche modo un’evoluzione di “Oylem Goylem”?
«La matrice originaria è proprio quella. In questo spettacolo però tutto è ridotto all’essenziale: nessuna scenografia, solo io e i musicisti, la voce e la musica».
Perché negli spettacoli yiddish non può mancare la musica?
«Il mondo ebraico rifugge l’idolatria, pertanto la musica e il canto diventano l’arte che esprime tutto il pathos, i sentimenti e le emozioni di un popolo che vive in esilio. E l’ebraismo diasporico ha mantenuto le orecchie ben aperte per elaborare ritmi e strutture musicali attraverso la lingua yiddish».
Che cosa pensa del caso del comico Dieudonné, accusato di mettere in scena testi antisemiti e per questo motivo censurato dal governo francese?
«Secondo me, Dieudonné ha pestato la classica merda: ha calcato la mano per provocare e si è ritrovato in questa situazione. Io sono contrario a qualsiasi forma di censura imposta dall’alto, perché se passa questo metodo si potrebbe colpire qualsiasi artista, qualsiasi cittadino. Diverso invece sarebbe stato se Dieudonné fosse finito davanti a un tribunale su denuncia di uno spettatore in base a una norma che condanna l’antisemitismo. Insomma, in democrazia se c’è un fatto previsto dalla legge come reato e qualcuno che lo denuncia, ci dovrebbero anche essere un processo e un giudice terzo che emette una sentenza».
Lo yiddish rivive anche grazie al teatro, che in Italia non sta vivendo un bel momento a causa dei tagli alle risorse fatti dagli ultimi governi. L’ex ministro Giulio Tremonti disse che “con la cultura non si mangia”. Lei che ha portato i suoi spettacoli in giro per il mondo ha incontrato situazioni simili a quella italiana?
«Ci sono paesi come Germania, Austria, Olanda e la stessa Francia che investono molto in cultura. Se quella frase l’avesse detta un politico tedesco o olandese, avrebbe scatenato una reazione molto forte nell’opinione pubblica con tutte le conseguenze politiche del caso. Invece, da noi, nulla. La cultura dovrebbe essere al primo posto dell’agenda politica, ma il vero problema è che in Italia c’è una classe dirigente piccola e incolta. Il nostro è un paese bloccato e impastato in una melma fatta di corruzione, ladrocinio e assenza di senso della cosa pubblica. A questo quadro desolante dobbiamo aggiungere che da anni gli italiani vanno a votare con una legge elettorale antidemocratica. Una classe dirigente così dovrebbe andarsene via. La mia speranza è riposta nelle nuove generazioni».
In questo contesto che cosa puo’ fare il teatro?
«Puo’ fare molto perché, nonostante sia finzione, è uno dei pochi luoghi in grado di rivelare la verità. Pensiamo a Shakespeare che ha attraversato i secoli anticipando tutti i temi dell’uomo moderno. Il teatro è un valido antidoto contro l’imbecillità che regna in televisione».
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