Siamo tutti migranti

Una lunga risposta alla lettera di Michele, il ragazzo che ha vissuto sei giorni su un cipresso

 Caro Michele*,

consentimi di darti del tu non per la tua giovane età, ma perché ci permette di superare formalismi, qui come altrove. Ho seguito la vicenda dei cipressi fin dal suo inizio e ho letto con attenzione la tua lettera più volte. È piena di poesia e di amore per la vita, ma non solo questo. 
Ho sempre apprezzato chi, come te, si mette in gioco, chi rompe consuetudini, chi rivendica diritti assumendosi responsabilità, chi guarda al mondo con la speranza di lasciarlo migliore di come lo ha trovato, e quindi senza alcun timore del futuro.
Ma veniamo alla tua protesta e alla tua lettera. Sulla prima non ho mai scritto e anche ora ho poco da dire perché la ritengo strumentale e basta. È stata utilizzata ad arte da tutte le parti per darsi visibilità ben oltre il merito della faccenda. Forse questo non nelle tue intenzioni. Certamente si in quelle di chi l’ha scatenata e cavalcata. 
Credo che non sia in discussione l’amore per gli alberi, ci mancherebbe altro. L’amministrazione comunale ha scelto di tagliare i cipressi argomentando con chiarezza le ragioni. Queste non nascono da capricci, ma da motivazioni serie. Si può dissentire, ma non si può certo dire che c’è una volontà di oltraggio alla natura. I cipressi possono recar danno, e in più non hanno alcuna armonia con lo spazio dove si trovano.
A questo proposito ti racconto una storia che vide protagonista il giornale da cui è nato Varesenews. Quando l’allora presidente della Provincia Massimo Ferrario decise di tagliare le conifere davanti a Villa Recalcati noi gridammo allo scempio e pubblicammo la notizia in prima pagina con titoli cubitali. Lui era arrivato a quella scelta per le stesse identiche ragioni per cui si vorrebbe procedere al taglio dei cipressi ai Giardini Estensi. Gli alberi, con il tempo, avrebbero procurato guai, e la loro crescita già impediva la vista della facciata della villa. Oggi nessuno tornerebbe a discutere di quella scelta.  
La tua protesta andava oltre il fatto specifico dei cipressi. Magari non per te, ma per gran parte di chi l’ha sostenuta si. Da un punto di vista simbolico, una battaglia per la salvaguardia degli alberi, è molto forte, fa presa e può coinvolgere davvero tutti i cittadini. Questa è la sua bellezza, ma anche il suo limite. Non si discute più nel merito, ma se ne fa una questione di principio e di contestazione. Non è vero che è stata “una battaglia totalmente pacifica e apolitica”. Non esiste l’apolitica. Ogni gesto che ha a che fare con la dimensione pubblica è politico e determina reazioni in quel senso. 
E passiamo ad alcuni punti della lettera. Forse è la giovane età che fa parlare di una “vita che grida”, che “urla” senza che qualcuno non la voglia ascoltare. Qui mi sembra ci sia una presa di posizione forte, perché non voler ascoltare le nostre ragioni non significa che il nostro interlocutore sia sordo. Magari significa solo che la pensa in altro modo. Sui cipressi si sono pronunciate istituzioni e poi anche i rappresentanti dei cittadini. Può essere che questo non basti, che occorra fare altri passaggi, ma ciò non ha nulla a che fare con la poca democrazia, o con il “non voler sentire”. La vita poi non dovrebbe urlare o gridare, e la speranza non è racchiusa in una bolla, come tu scrivi. Vogliamo un mondo migliore e questo davvero “non ha bisogno di ricorsi e carte bollate”. Pensa però a quanti problemi abbiamo ancora da risolvere. Se tutte le volte dovessimo salire sugli alberi, i rischi diventerebbero davvero grandi quanto le soluzioni che cerchiamo. Ci sono momenti e situazioni che lo richiedono, ma valutiamo bene quando e quali.
Prima di concludere voglio personalmente ringraziarti perché le tue riflessioni sono uno stimolo importante per tutti noi. Sollevano questioni importanti e lo fanno con la carica di chi ha tutto il futuro davanti e ne vuole responsabilmente esser protagonista.
Mi permetto però di di lanciarti anche io una provocazione interessante utile rispetto al tema che ci ha portato entrambi a scrivere. Per farlo prendo a prestito un grande pensatore contemporaneo, Zygmunt Bauman. Il tuo striscione recitava: “Non c’è futuro senza radici”. Un tema importante, profondo, ma anche portatore di un grande paradosso nella civiltà in cui viviamo. 
Le metafore delle radici e dello sradicamento, in una società liquida come quella in cui viviamo, vanno riviste quando si parla dell’identità. Bauman preferisce parlare di ancore. “Issare un’ancora, a differenza dal «radicarsi» e «sradicarsi», non ha niente di irrevocabile o di definitivo. Le radici, quando vengono divelte dalla terra in cui sono cresciute, generalmente si seccano, uccidendo la pianta che nutrivano, il cui rifiorire avrebbe quindi un che di miracoloso; al contrario le ancore vengono issate solo per esser gettate di nuovo, e altrettanto facilmente, in molti porti diversi. Inoltre, le radici progettano e predeterminano la forma che dovrà assumere la pianta che si svilupperà da esse, ed escludono la possibilità di ogni altra forma. Le ancore sono invece soltanto attrezzature che servono a fissarsi a un luogo in modo dichiaratamente temporaneo o a staccarsene, e non definiscono in alcun modo le caratteristiche e le qualità della nave. Il lasso di tempo che separa l’atto di gettare un’ancora da quello di issarla nuovamente non è che una fase dell’itinerario della nave. 
La metafora dell’ancora coglie ciò che sfugge alla metafora dello sradicamento: l’intreccio di continuità e discontinuità nella storia di tutte le identità contemporanee”. (L’arte della vita)
Nell’era della connessione, dove siamo tutti migranti, forse questo diverso approccio potrebbe aiutarci a leggere il presente con minor paura e rigidità.
In bocca al lupo per tutte le tue cose.

* da una risposta a una lettera pubblicata qui

 

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 23 Settembre 2014
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