Cgil, Leopolda e il percorso seducente di Renzi

Giuseppe Adamoli racconta la contrapposizione tra le due piazze e gli obiettivi del leader del Pd. Ecco la sfida dle futuro

La contemporaneità della Leopolda di Renzi e della piazza della Cgil ha scatenato polemiche feroci. Per molti una contrapposizione insanabile, per tanti altri un gioco delle parti che lascerà le cose come stanno. Sono entrambe rappresentazioni sbagliate. A Roma l’obiettivo ufficiale era la contestazione radicale delle politiche economiche e del lavoro del governo. Era la risposta della Cgil alla sfida di Renzi sul cambiamento del Paese. Il perno di questa strategia è la difesa dei diritti dei lavoratori simboleggiata dall’art. 18 con la minaccia di altre iniziative fra cui lo sciopero generale.

La piazza tutta rossa offriva una visione di orgogliosa unità che costituiva anche il suo limite per la vistosa assenza di Cisl e Uil. Una spaccatura che sarà difficile da superare. La Cisl veleggia su altri mari portando avanti una svolta profonda nei mezzi della lotta sindacale e giudica lo sciopero generale come un segno di impotenza piuttosto che di forza. Sul piano strettamente politico piazza S. Giovanni era percorsa da due intenti contrastanti o perfino contrapposti: uno tutto dentro il Pd col tentativo di piegare il segretario-premier a venire a patti con la minoranza. L’altro, tutto esterno, con l’ambizione di sperimentare le potenzialità di un partito autonomo e alternativo al Pd.

La Leopolda era molto diversa sia dal punto di vista cromatico sia per la prevalente (non unanime) cultura politica. Il primo scopo era attinente all’azione di governo: avanti con il Jobs Act, la legge finanziaria della crescita in tensione con l’Ue, le riforme istituzionali. Poi però c’era un secondo scopo altrettanto importante: condurre a termine la costruzione del Pd secondo il disegno politico della sua fondazione al Lingotto di Torino. Un progetto che allora era stato da tutti accettato anche perché sembrava lontano e irrealistico. Un progetto che archiviava definitivamente l’esperienza post comunista e post sinistra democristiana, che richiedeva una diversa struttura di partito e nuove forme di partecipazione.

Cosa volevano dire le primarie se non la centralità degli elettori accanto all’antica ed esclusiva centralità degli iscritti e dei circoli? Chiaro che tutto questo comportava la presa di distanza da pezzi della sua tradizione e una modificazione del corpo sociale, delle liturgie, delle alleanze sociali e sindacali. E’ un percorso seducente quello di Renzi che si allontana dalla vecchia Ditta e che cerca di vincere alla grande come alle europee. Per farcela ha bisogno di un Pd plurale nel quale la dialettica sia libera, forte, perfino spregiudicata in alcuni frangenti, ma nel quale le decisioni della maggioranza alla fine si rispettano, salvo casi di coscienza soprattutto sulle questioni etiche.

Molte cose sono cambiate e devono ancora cambiare, ma non il fatto che Il Pd sia nei fatti e venga percepito come un moderno partito di sinistra che sa governare con la barra diritta verso un’Italia più giusta e più equa che tuteli e garantisca anche le donne, i giovani e gli uomini che finora sono rimasti esclusi.

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Pubblicato il 27 Ottobre 2014
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