La nostra privacy? È in vendita su internet

La tecnologia permette di godere di molti servizi virtuali apparentemente gratuiti. In cambio, infatti, vengono acquisiti i nostri dati sensibili. Come arginare questo commercio? Risponde Elena Ferrari, preside del corso di informatica all'Insubria

Postare una foto su Facebook. Controllare peso e attività fisica con il braccialetto. Acquistare on line. Ormai la tecnologia ci permette di avere servizi precisi e puntuali con un click. Anche la casa demotica è un lusso che ci consente di gestire facilmente e velocemente le faccende di casa. Una vera soddisfazione… e per giunta gratis!

Ma è su questo punto che studiosi e legali stanno studiando: quello che apparentemente è libero e gratuito, in realtà ha un costo preciso, la nostra privacy.

Tutto ciò che si condivide sui social, la spesa on line, anche il bracciale che tiene vigila sulla nostra salute, creano dati che vengono raccolti in grandi server i quali, a loro volta, li restituiscono al proprietario. Li restituiscono, però, trattenendoli e disponendoli secondo un modello che, alla fine, crea business. È così che questi provider riescono a guadagnare dalle opportunità che offrono al pubblico. Lo stesso Facebook, apparentemente una piazza virtuale di condivisione e socialità, è costruito in modo che gli utenti siano prodotti mentre i clienti sono le società che fanno pubblicità mirate in base alle nostre caratteristiche.

Il grande fratello?
«In questo particolare momento sì – commenta la professoressa Elena Ferrari, preside del corso di Informatica all’Università dell’Insubria, recentemente premiata da IBM per i suoi studi su “big data e privacy” – Stiamo parlando di aziende che hanno investito in servizi gratuiti in cambio della nostra privacy. I “big data” è il fiume di notizie sensibili che viene immesso, spesso in modo poco consapevole, dai cittadini e che confluisce in server di terzi che ne diventano proprietari. Tutto ciò è possibile perché il campo è nuovo e le regole ancora fumose. Per questo stiamo studiando e cercando vie di tutela dei dati sensibili dei cittadini mantenendo, però, un modello di business».

Il problema è tutto qui. Oggi, chi gestisce i servizi li dà gratuitamente perché sa di ricevere in cambio informazioni preziose e monetizzabili:
« L’idea – racconta la professoressa Ferrari – è quella di sfruttare il “cloud computing” dove ognuno può stoccare le proprie info. A quel punto, però, che interesse avrebbe l’azienda a offrire servizi gratuiti? Ed è, perciò, sul modello di “business” che si sta dibattendo: da qualche parte, l’economicità va garantita, per cui o l’utente finisce per pagare la gestione della propria privacy o accetta di comprare i servizi».

La questione non è semplice: in questo momento la tecnologia per fare simili scelte è ancora costosa, ci sono problemi infrastrutturali e di efficienza:
« È indubbio, però, che il progresso non si fermerà. Per cui si dovrà per forza arrivare alla soluzione. Ecco perché IBM ha deciso di premiare la ricerca: il campo è delicato ma non ci sono alternative alla soluzione del contrasto».

La consapevolezza sulla complessità della questione è ancora molto bassa.
Spesso su Facebook, per esempio, si leggono dichiarazioni che richiamano il diritto alla privacy con diffide più o meno articolare a chiunque tratti propri dati sensibili: « Si tratta di dichiarazioni che non hanno alcun valore – chiarisce la preside del corso di Informatica – È solo uno sfogo. Chi apre un profilo sul social network ne accetta regole e condizioni. E, come tutte le clausole più indigeste, sul punto della privacy FB, per esempio, è molto fumosa: “ tuteleremo al meglio”. Altri provider, nascondono le note che riguardano il trattamento dei dati e rimangono blandi. Ci sono state, in verità, class actions condotte, però, con sistemi legali più strutturati: in quei casi si sono raggiunti veri risultati».

Il problema è anche di natura legislativa
« Dobbiamo pensare che stiamo parlando di servizi e operatori che lavorano nel mondo. I server possono essere messi negli Stati Uniti piuttosto che in Europa o in Asia. Ogni paese ha una sua legislazione: pensate alla Cina e a tutte le restrizioni che ha deciso per internet. La complessità è grande. Oggi complice anche lo scandalo degli Stati Uniti che spiavano i cittadini, (scandalo NSA) c’è una maggiore consapevolezza dei rischi che corriamo. Quindi, il consiglio è quello di evitare di inserire on line informazioni molto sensibili. In questo momento, non ne saremmo i padroni». 

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 18 Dicembre 2014
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