Diamoci un taglio
La sartoria Biasoli nasce nel 1925 a Gavirate: fondata da papà Giuseppe, cresce negli anni Cinquanta con il figlio Carlo e il negozio di confezioni. E’ iscritta a Confartigianato Varese dal 1945
A dieci anni, nel 1948, Carlo Biasoli era già in laboratorio: «L’estate prendevo ago e filo tra le dita, ma per mio padre ero ancora troppo piccolo per fermarmi otto ore al lavoro. Crescendo, le ore non le ho più contate».
La Sartoria Biasoli è nel cuore di Gavirate, e il tempo si è fermato: il negozio di confezioni aperto nel 1952 e, accanto, la porticina che conduce in una piccola oasi di tessuti, bottoni, modelli, macchine da cucire Singer, ferro da stiro e abiti appesi. Ovunque gessetti bianchi e metri, cotone colorato su un bancone di legno scavato dalle mani che tagliano, sovrappongono, uniscono. La sartoria è un’arte che lentamente scompare, e Carlo Biasoli lo sa.
Ci sono giovani che stanno riscoprendo i vecchi mestieri?
«Ci sono, ma sono pochi. La maggior parte non vuole fare l’artigiano, e forse ha ragione: il lavoro lo si deve imparare da piccoli ma oggi i guadagni sono incerti, il lavoro è duro e ci vogliono passione e dedizione. In poche parole, voglia di fare».
Un lavoro da amare?
«Un lavoro che è la tua vita, perché il mio laboratorio è proprio sotto casa. Oggi, a 77 anni, mi posso permettere di andare avanti per simpatia perché chi fa qualità, e deve farne percepire il valore, fatica».
Il suo è un lavoro legato a doppio filo al Made in Italy, non ne è orgoglioso?
«Sì, ed è per questo che nella Sartoria Biasoli si usano soprattutto tessuti italiani e qualche volta quelli inglesi; il lino di qualità è solo irlandese. Il bello è che in Cina, chi se li può permettere, acquista i nostri abiti e noi, invece, i loro. Il segreto è adeguarsi».
Quante volte si è adeguato in 70 anni?
«La sartoria l’ha fondata papà Giuseppe nel 1925, ma l’iscrizione alla Camera di Commercio risale al 1927. Ho lavorato al fianco di mio padre fino alla sua morte, negli anni Settanta, e mi sono sempre adeguato. Gli abiti seguono la moda e cambiano di forma: bisogna saperli fare a mano perché le macchine sono facili da usare ma non danno il tocco. La differenza la fa il sarto, la sua esperienza, la conoscenza che ha dei tessuti. Negli anni Cinquanta qui si faceva un abito al giorno, poi è arrivata la prima crisi».
Sarto si nasce?
«Si diventa, studiando. Io imparavo da mio padre, ma poi a 19 anni ho frequentato la scuola di taglio alla Sartotecnica di Milano: il maestro che ci insegnava era abruzzese e, a scuola di taglio, ci era andato già a 14 anni. Poi sono passato alla scuola di modellismo. Negli anni d’oro siamo arrivati ad avere anche 5 dipendenti: per fare un abito ci si metteva circa 40 ore, ed eravamo più che soddisfatti quando ci ordinavano qualche frac».
Lei dice che un abito resta sempre un abito: cosa significa?
«Non c’è molta innovazione in un abito. Il vero cambiamento è nella tua testa, perché devi saper affrontare il ritorno ciclico della moda: nel 1925 un pantalone aveva la base al piede larga 25 cm., quando ero giovane, negli anni Cinquanta, si era arrivati a 18 cm., mentre negli anni Settanta a 33 cm. Oggi il fondo della gamba si è stretto nuovamente. E poi c’è dell’altro…».
… cosa?
«Siamo diventati tutti insofferenti: una volta il peso di un tessuto al metro per un abito estivo era di 350 grammi, oggi quello invernale è di 320 e quello estivo è di circa 200».
L’arrivo delle confezioni cosa ha portato?
«Dai Cinquanta ai Sessanta c’è stato il primo calo e la cultura dell’abito ha accusato il primo, grande
colpo. Un tempo, il guardaroba dell’uomo di città era ben fornito: almeno 3 abiti, cappotto, impermeabile, capi per la mezza stagione. Era un fatto di cultura: quello che si portava addosso non era solo tessuto ma una prova di eleganza. Da anni è finito il gusto dell’abito bello, poi i vecchi clienti non sono stati sostituiti da quelli giovani».
Cosa è cambiato?
«La crisi c’entra, è innegabile, ma il modo di vivere guarda ad altro: all’eleganza di un abito oggi si preferisce l’eleganza di una macchina. E si va nei negozi dove la cura artigianale non c’è: alla Biasoli un abito costa circa 800 euro e dura 10 anni; quelli fatti in serie dopo 2 anni iniziano a sciuparsi».
E il rapporto con i clienti?
«Il cliente non va coccolato ma semplicemente rispettato. Poi è importante costruire un rapporto di stima reciproca «basata sulla serietà. E’ questa la vera qualità dell’artigiano≥.
Settant’anni sono tanti: qualche rimpianto?
«Uno solo: avrei voluto continuare gli studi e laurearmi in matematica».
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