Via Francigena: da Berceto a Pontremoli
La quarta tappa arriva in un delizioso paese dopo aver superato, non senza fatiche ed errori, il Passo della Cisa. L'incontro con Brian fa riflettere su fede e scienza

Da lunedì pubblichiamo un nuovo diario sulla Via Francigena. Il protagonista questa volta non è il nostro direttore (qui i suoi racconti), ma Marco Pinti che ha percorso sette tappe tra l’Emilia e la Toscana partendo da Fidenza l’11 Luglio per poi arrivare fino ad Avenza.
Il suo diario è stato scritto nei giorni seguenti il suo ritorno a Varese. Marco è noto in città anche per l’impegno politico come segretario della sezione varesina della Lega Nord.
IL DIARIO del 14 luglio
Ebbene no, non l’ho preso davvero l’autobus, ma confermo che salire il Passo della Cisa non è per niente dura. Basta non farsi ingolosire dall’ “allungatoia” che scarpina sul Monte Valoria e restare sull’asfalto della strada principale, peraltro deserta alle sette del mattino. Si sale così dolcemente in cima al passo presidiato, anche qui, da due lapidi di partigiani poste nel punto esatto in cui sono caduti. Da qui la Francigena si fonde nella linea Gotica, i cui segni non tarderanno a mostrarsi. A star dietro a questi ragionamenti finisce che perdo l’imbocco del sentiero, un errore che pago con una gincana di estenuanti tornanti, fortunatamente in discesa, sotto un sole che inizia a picchiare. La traccia perduta ricompare subito dietro una curva e tanto per cambiare si inerpica in ripida e pietrosa salita: il passo del Righetto.
Poche volte nella vita si possono sperimentare stati d’animo così lontani in così pochi minuti: dapprima le imprecazioni nervose, sfiancate, di chi sperava di aver chiuso con le salite, almeno per un giorno. Poi, appena in cresta al monte, tra alberi radi e cacche di mucca, la ricompensa di un orizzonte di ovunque montagne, a perdita d’occhio, fin quante ne vuoi.
A valle, lontanissima nel tempo e nello spazio, fa capolino la Parma Mare A-15 con un breve viadotto tra una galleria e l’altra. Code a tratti.
Sto camminando calmo, canticchiando la colonna sonora del Signore degli Anelli, quando incrocio Jonathan, il tedesco che ha deciso di tornare ad Amburgo a piedi. Sembra molto più interessato a non perdere il ritmo della sua marcia che a parlare con me, così ci scambiamo giusto quelle poche battute che mi lasciano il tempo di notare la croce francescana che porta al collo e la conchiglia ricamata sullo zaino da bravo reduce di Santiago de Compostela.
Il suo sentiero sale, mentre il mio scende rapido fino al paese di Cavazzana, poi si taglia tra gli orti di Groppoli giù fino a Molinello, dove un cartello stradale promette Pontremoli in soli cinque chilometri. Ancora non immagino che saranno una piccola via crucis.
La mia sagoma è rimasta infatti l’ultima ombra sull’asfalto, il sole non da tregua e proprio mentre intuisco dal crescente bruciore sulle braccia e sulla nuca gli indizi di scottature plurime, ci si mette anche il sudore che tracima lungo la fronte sulle pupille fino ad ostruire completamente la vista. Ma nonostante tutto, passo dopo passo, ormai in preda ad un serio delirio che mi fa dubitare di non essere davvero io a camminare, quanto piuttosto la mia ombra a trainarmi, riesco ad arrivare fino all’ultimo bivio prima di Pontremoli. Di qui una scaletta laterale conduce ad una chiesa e ad uno sterrato alberato che sfila sotto un ponte, attraversa il piccolo borgo di Mignegno e finalmente entra “in loco qui dicitur Pons Tremolans”. Nella piazza centrale consumo velocemente il mio rituale atterraggio nella borghesia con caffè e sigaretta, per poi prendere svelto la strada della foresteria del convento dei Cappuccini.
Quanto sia stata una tappa impegnativa lo realizzo pienamente solo nel momento in cui, mentre sto stendendo i panni sulla terrazza, mi sorprendo a contemplare dolcemente la stazione dei treni sottostante con i suoi ben cinque binari da cui partono le diaboliche tentazioni di tornare a viaggiare da seduti. Fortunatamente più del disonor può il digiuno che mi richiama verso il refettorio. Lì finalmente incontro Bryan, il cacciatore di coccodrilli di cui favoleggiava il bambino della casa colonica di Siccomonte, l’americano che mi aveva preceduto nel registro dei pellegrini di Oliviero, al bar dello scoiattolo di Costamezzana. Mi invita a sedermi a tavola con lui e presto intavoliamo un dialogo vivace, nonostante il suo italiano stentato tanto quanto il mio inglese.
Esordisco raccontando la leggenda del cacciatore di coccodrilli che lo diverte a tal punto da scriverne subito alla moglie, dopo di che spaziamo tra questioni molto pratiche, come la praticità di far provvista di uova sode da mangiare lungo la via, e domande sui massimi sistemi come il rapporto tra fede e scienza, dal momento che lui insegna sia teologia che fisica in un liceo di New York. Non gli fa difetto il dono della sintesi: “La fede risponde al perché delle cose, la scienza invece si occupa del come. E’ normale che a domande diverse ci siano risposte diverse.”
Amen.
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