L’ultima notte di Giuseppe Uva, ecco la versione dei carabinieri

I due militari Righetto e Dal Bosco interrogati in corte d'assise. Sentiti anche i poliziotti Colucci, Rubino e Focarelli. "Era lui che ci minacciava. Nessuna violenza, facemmo solo il nostro dovere"

Processo Uva tribunale Varese

I carabinieri e i poliziotti parlano in aula. E’ la prima volta dall’inizio dell’indagine e del processo per la morte di Giuseppe Uva. I militari, in particolare, hanno negato di aver picchiato Uva: hanno affermato di non aver mai detto a Giuseppe “Uva…proprio te cercavo”, di non averlo fatto cadere per terra e inoltre che non avevano alcun motivo di astio nei suoi confronti perché la storia della relazione con la moglie di un carabiniere è del tutto falsa.

Ma ecco come andò quella notte, secondo gli imputati. Il primo è stato il brigadiere Stefano Dal Bosco. Ha ricostruito la chiamata della centrale operativa e l’arrivo verso le tre in piazza Madonnina in prato a Varese. Due uomini, Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero avevano spostato delle transenne e bloccato la strada. Erano ubriachi. La gazzella dei carabinieri si fermò, gli operanti gli dissero di smetterla. Li seguirono in via Garibaldi. “Uva urlava e litigava con le persone affacciate – ha raccontato Dal Bosco – abbiamo usato il buon senso, cercando di farli smettere. Sempre Uva spostò un cassonetto nella strada e un’auto sopraggiunta quasi lo urtò. Era pericoloso. Tuttavia non usammo mai la forza o la violenza”.

Cadde mai per terra?” ha chiesto il pm Daniela Borgonovo. “Mai, non cadde assolutamente” ha risposto il secondo carabiniere, il brigadiere Paolo Righetto. Le parole dei due militari coincidono. Seguendo il racconto di Righetto, tuttavia, si può capire meglio la versione delle forze dell’ordine. “Quella notte arrivammo – ha spiegato il brigadiere – sistemammo le transenne, poi li seguimmo in via Garibaldi. Quando ci vide, Uva spostò in mezzo alla strada anche un cassonetto della spazzatura. Sono sceso e gli ho detto: metti a posto il cassonetto. Lui mi insultò. Urlava e inveiva contro alcuni cittadini ai balconi. Un inquilino mi guardò e mi disse: ma cosa state aspettando? Li volete portare via questi due ubriachi? Uva diede calci al portone di questo inquilino, come per sfidarlo”.

Righetto continua: “Gli abbiamo detto più volte di smetterla, di andare a casa, ma niente. Alla fine abbiamo dovuto bloccarli. In piazza abbiamo aperto la macchina, ma Uva faceva resistenza, allargava le braccia per non entrare. Gli spostammo le braccia dietro la schiena e lo ammanettammo. Era agitato e aggressivo. Lo inserii a fatica nell’abitacolo, lui si mise di traverso sul sedile e dava calci alla portiera. Era molto energico e trasandato, puzzava”.

Il brigadiere arriva poi alla fine della scena in strada: “Per noi non era una sera diversa da altre. Abbiamo avuto tanti casi di questo tipo, nei turni di notte. Ci capitò anche marocchino ubriaco che ingoiava vetri: Ma da soli, quella sera, con Uva e Biggiogero con ce la facevamo. Quindi chiedemmo ausilio alla centrale operativa. Arrivò una volante con i poliziotti Bruno e Capuano, che caricarono Biggiogero”.

Sia Righetto che Dal Bosco hanno confermato che Uva si rifiutò di fornire i documenti, al contrario dell’amico. Entrambi hanno ribadito che non si trattò di un arresto, né di un fermo, bensì di un intervento consentito dalle loro “regole di ingaggio” diciamo così, per togliere dalla strada due persone pericolose per gli automobilisti e moleste per i cittadini che dormivano. Decisero infine di effettuare la denuncia in caserma. Il brigadiere Righetto ha difeso con grande energia questa scelta: “Non poteva fare diversamente – ha spiegato – era nostro dovere fare quell’intervento”.

IN CASERMA

Ascoltare il resto del racconto è come vedere un film già conosciuto, ma da un’angolazione diversa. Fino a oggi abbiamo solo ascoltato le chiamate telefoniche e le versioni di Alberto Biggiogero, ma ecco che cosa hanno detto i carabinieri.

“Portammo Biggiogero e Uva in caserma – ha continuato il brigadiere Righetto, ma quanto affermato da Dal Bosco coincide – e facemmo entrare il più agitato dei due in un locale che misura tre metri per due. Gli togliemmo le manette. Dal Bosco si sedette e iniziò a compilare i verbali. Poco dopo mi chiamò la centrale operativa, e mi disse: guarda che in sala d’aspetto c’é uno che ha chiesto un’ambulanza. Mi sembrò strano, ma risposi che erano solo due ubriachi.
Uva urlava e ci insultava. Era un continuo. Guarda che stai svegliando tutta la caserma, gli dissi. Se non svegli nessuno, ti togliamo le manette“.

Righetto aggiunge che andò in sala d’attesa e si fece consegnare il telefono da Biggiogero, successivamente tornò nello stanzino dove il collega stava per procedere alla denuncia per disturbo del riposo e per i vandalismi in strada. La tesi del primo pm che indagò, Agostino Abate, era che Uva si inalberò perché comprese che la denuncia gli avrebbe fatto saltare l’esame per riprendere la patente di guida, previsto a giorni. Ma torniamo al racconto: «Adesso dammi i documenti perché dobbiamo procedere anche per te, gli dicemmo, a quel punto si alzò di scatto e scaraventò addosso al collega la scrivania. Diede pugni sul tavolo e una testata all’armadio metallico sulla destra. Ora mi faccio male, diceva, ve la faccio pagare, vi denuncio tutti. E’ per questo che chiamammo il medico, per il tso. C’erano già i colleghi della polizia, ma poco dopo arrivò anche l’ispettore Colucci. Cercò un dialogo con Uva. all’inizio gli diede retta. Poi ricominciò”.

Entra in scena il medico del tso: “Era un continuo alternare di stati d’animo, alzarsi e picchiare pugni. Non vedevamo l’ora arrivasse questo benedetto dottore – ha sospirato il carabiniere – ma quando infine giunse Uva non si calmò. Gli disse negro, non mi faccio toccare, hai il permesso di soggiorno? E la laurea? Il dialogo non riuscì».

Righetto spiega anche dell’arrivo del secondo medico e dei gesti di autolesionismo già descritti tante volte da medici e paramedici. “Si diede una spinta – ha osservato – e cadde all’indietro picchiando la testa sul pavimento. Continuò a sbattere la testa. Adesso ti faccio male, sbirro di merda mi diceva. E’ per quello che misi la scarpa tra la sua testa e il pavimento, per impedirgli di farsi male. Lo rimettemmo sulla sedia. Aveva le manette, ma era un continuo metterle e toglierle. Se ti calmi, te le togliamo, dicevo, ma poi le rimettevo perché non si calmava. Alla fine l’ispettore Colucci e il collega Dal Bosco lo accompagnarono fuori dalla stanza per condurlo in ambulanza. All’uscita dalla caserma si divincolò e diede una testata alla porta a vetri. Urlava che ce l’avrebbe fatta pagare. Venne cinturato in barella, ma riusciva ancora a muoversi in ambulanza. Le spondine di metallo vennero alzate. Ma non si poteva tenere. Dava colpi alle spondine con la testa. Il medico allora gli mise il collare. Mi chiesero espressamente di andare con loro e così facemmo”. Il carabiniere infine ha negato di aver mai accompagnato Uva al bagno del pronto soccorso.

I poliziotti

Anche il racconto dell’ispettore di polizia Pierfrancesco Colucci proietta in aula lo stesso film di quella notte. Quando arrivò in via Saffi l’ispettore vide Uva per terra mentre si stava dimenando. ”Riuscì a parlare con lui – ha spiegato il poliziotto – ma poco dopo ricominciò a urlare”. Colucci era il capoturno delle volanti, ma anche rivelato come mai  quella notte del 14 giugno 2008 ben tre volanti furono inviate in caserma: due le chiamò la centrale operativa a sostegno, la terza invece era quella in cui era lui stesso a bordo. Fu Colucci a decidere di andare dai carabinieri: era il coordinatore del servizio e voleva rendersi di conto di persona se andasse tutto bene. “Andare controllare – ha confermato – rientrava nei miei compiti. Sono tanti anni che aspetto di poter spiegare come sono andate le cose e vi assicuro che di interventi così, noi poliziotti ne facciamo tutti i giorni”. Il racconto di Colucci e dei due carabinieri fa il paio con quello di Gioacchino Rubino e Francesco Focarelli, altri due agenti delle volanti che in sostanza hanno dato una ricostruzione dei fatti non discordante da quella dei colleghi.

Roberto Rotondo
roberto.rotondo@varesenews.it
Pubblicato il 27 Novembre 2015
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