Lilliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, si racconta al Crespi
Felice mamma, nonna moderna, testimone per caso ha coinvolto gli studenti in un intenso e drammatico racconto della sua esperienza di deportata
Lilliana Segre.
Cercando questo nome su internet, google fornisce diligentemente un migliaio di link e siti come risposta: Lilliana Segre “il paese dei bambini che sorridono”, Lilliana Segre si racconta in un libro, Lilliana Segre una pagina su wikipedia, Lilliana Segre “riscopre il binario 21”.
Ognuno di queste definizioni è come una sorta di indizio, delle briciole che insieme vanno a formare lentamente un’immagine che corrisponde a Liliana Segre.
Ma sopra a tutti, e in ognuno di questi, c’è il marchio indelebile e terribile: Lilliana Segre, sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, testimone dell’olocausto.
Nella conferenza che ha tenuto al Liceo Crespi di Busto Arsizio, davanti a un pubblico di diciottenni che non erano mai stati ne così attenti ne così stupiti, Segre si è definita in moltissimi modi: una felice mamma di tre figli, un nonna moderna capace di usare l’ipad, una testimone per caso.
Lo stesso caso che, bambina, l’aveva portata a subire le leggi razziali del 1938, e poi alla prigionia, alla deportazione il 30 Gennaio 1943 all’età di 13 anni al campo di sterminio, e alla marcia della morte, ora l’aveva portata a essere una testimone.
Come racconta lei stessa, ci sono voluti quarantatre anni prima che riuscisse a rompere il silenzio degli orrori e a trasformarsi in una voce, chiara e distinta sopra le altre, pronta a parlare e a denudare i suoi ricordi, anche i più dolorosi, davanti al mondo.
Quarantatre anni perché il desiderio di vendetta sparisse, quarantatre anni perché l’odio verso i suoi aguzzini, i carnefici della sua famiglia, non esistesse più, e fosse pronta a portare alla luce una testimonianza lucida.
Ascoltandola raccontare, è proprio questo che colpisce di più: una donna di 86 anni che parla chiaramente, coinvolgendo il suo pubblico totalmente e senza sforzo, e non c’è pubblico più difficile di quello dei ragazzi,una donna che racconta senza alcun rancore.
Prima che si concluda la conferenza, un monologo intenso di circa un’ora e mezza, lei ci ha già più volte paragonato ai suoi tanto amati nipoti e, come a loro, vuole dare un consiglio: “non dite mai che non ce la fate più”.
Le sue ultime parole si perdono negli scroscianti applausi di centinaia di giovani mani, e tutti i presenti si alzano dalle poltrone e rimangono così, in piedi, applaudendo senza sosta, consci di essere diventati a loro volta dei testimoni della storia.
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