Le donne tra rivoluzioni tradite e welfare negato
In un convegno al De Filippi presentata una ricerca sul welfare della Liuc commissionata dalla Camera di Commercio. Quasi l'80% delle lavoratrici del settore sono donne

Non è vero che le donne nello studio siano più portate per le materie umanistiche rispetto a quelle scientifiche o che siano meno creative e più analitiche. Come non è vero che siano più adatte ai lavori domestici o nell’assistenza alla persona.
«Ci sono troppi stereotipi e luoghi comuni sulle donne. Non dobbiamo subirli, ma dobbiamo imparare a parlare a noi stesse, a raccontarci la verità. Fa bene alla nostra autostima». Clara Lazzarini, della segreteria regionale della Uil, è un autentico vulcano. Si racconta senza paura di fronte alle tante donne intervenute al convegno “Non solo donne: tra realtà e prospettive”, organizzato dal coordinamento donne di Cgil, Cisl e Uil.
«Da piccola – continua Lazzarini – dissi alla maestra che volevo fare il prete. Lei mi rispose che non era possibile e per piegare la mia caparbietà mi mise dietro la lavagna. Non ho fatto il prete, ma l’insegnante d’arte e la lavagna l’ho usata per fare lezione».
Gli stereotipi per un ricercatore sono un male da combattere con dati ed evidenze. Antonio Sebastiano, dell’Osservatorio sulle ras (residenze sanitarie assistenziali) della Liuc e autore dell’indagine sulle Opportunità occupazionali offerte dalle attività economiche a sostegno del welfare in provincia di Varese, finanziata dalla Camera di Commercio, parte proprio dai numeri. «In questo settore – spiega Sebastiano – direi che il primo dato evidente è l’altissima percentuale di lavoratrici donne. L’80 per cento del personale è costituito da figure assistenziali di base con un contratto stabile e un livello retributivo molto basso. Ora sfatiamo un altro luogo comune: a questa alta percentuale femminile non corrisponde un’incapacità dei maschi che invece sono molto ricercati nell’assistenza dove si hanno mansioni che richiedono una certa forza fisica». A questa presenza femminile nel settore non corrisponde un’adeguata presenza di piani strutturati in materia di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro che, quando ci sono, sono legati a soluzioni di tipo tradizionale (part-time agevolato, piani congedo maternità).

«Nel 2004 gli stranieri che lavoravano in Italia erano il 4% della popolazione – spiega Fiorella Morelli della Cisl regionale – mentre oggi superano l’11%, aumento dovuto alla presenza delle badanti che costano meno rispetto al ricovero in una casa di cura. In molti casi, dove non ci sono le risorse, questo peso grava ancora sulle spalle delle donne che, oltre a lavorare, devono farsi carico della famiglia. Non è una opinione ma un dato di fatto: l’uomo fatica ad accettare questo ruolo perché lo interpreta come uno svilimento. In condizioni normali è già faticoso, ma tutto si complica quando intervengono patologie difficili da gestire tra le quattro mura di casa, come l’alzheimer o la demenza senile».
La soluzione, secondo Morelli, c’è e consiste in una diversa concezione del welfare che deve integrare i vari livelli in cui si articola, cioè quello istituzionale con quello aziendale. «Il modello è virtuoso – spiega la sindacalista – perché permetterebbe anche alle piccole imprese di fare una proposta di servizi ai propri dipendenti, attraverso una rete coordinata dai singoli comuni, che mantengono un ruolo super partes e aiutano la rete con le strutture o con dei contributi. Questo tipo di integrazione del welfare è ancora poco presente nella contrattazione».
Melissa Oliviero, della segreteria regionale della Cgil, parla di rivoluzioni tradite, citando il libro “Valorizzare le donne conviene”. «Le donne si laureano meglio e prima degli uomini – spiega la sindacalista – ed è l’unica rivoluzione compiuta perché dopo la scolarizzazione compiuta permangono le difficoltà nel mercato del lavoro, dove le donne scontano una maggiore disoccupazione. Le donne che lavorano a loro volta hanno figli che vanno meglio a scuola, come dimostrano testi Invalsi. Questo dipende da una maggiore disponibilità economica delle famiglie che possono accompagnare i figli nel percorso scolastico in modo coerente e senza affanni».
«Sul piano culturale c’è comunque ancora molto da fare – conclude Oriella Riccardi della Cgil di Varese -. Se si vogliono scardinare luoghi comuni sulle donne, gli stereotipi e ottenere risultati duraturi, bisogna aumentare i progetti relativi alla conciliazione lavoro e famiglia, per lo meno renderli certi con un finanziamento stabile, non a spot o su bando come avviene oggi. Servono quindi politiche strutturali a livello nazionale, come hanno fatto i paesi del Nord Europa».
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