Uva non è Aldrovandi
Il processo mediatico ha spesso nascosto la mancanza di prove che sta dietro a questa vicenda
La giustizia deve distinguere, non deve fare di tutta l’erba un fascio.
Gridano “maledetti” in aula i parenti di Giuseppe Uva. A loro va un doveroso rispetto, ma che non può essere a senso unico. Anche le vite di due carabinieri e sei poliziotti, servitori dello stato, sono state stravolte da questa vicenda e solo una giuria imparziale e serena, in questi casi, può garantire che all’ingiustizia umana di aver perso un fratello si possa aggiungere l’ingiustizia giudiziaria di condanne frettolose. Così forse hanno ragionato i giudici di Varese.
Sul caso della morte di Giuseppe Uva, per diversi anni, è stato celebrato un vero e proprio processo parallelo, mediatico, che non ha trovato quasi alcuna corrispondenza con quanto accaduto nella corte d’assise di Varese: dove i fatti, per chi pazientemente e umilmente ha seguito tutte le udienze minuto per minuto, o anche per chi ha seguito tutta l’inchiesta giorno per giorno fin dal 2008, non hanno quasi mai corrisposto a quanto si andava raccontando in televisione.
Prendete le fotografie del cadavere di Giuseppe in obitorio, presentate all’opinione pubblica come torture. Per molti è stato uno choc, apprendere in aula che si trattava di colorazioni naturali; tutti i consulenti ascoltati nelle aule giudiziarie hanno sempre spiegato che quei “lividi” erano semplicemente le macchie ipostatiche di un cadavere che giace dopo qualche ora dalla morte in un tavolo di obitorio.
L’assonanza con altri casi che hanno scioccato l’opinione pubblica, come quello di Federico Aldrovandi a Ferrara, terminato con condanna in cassazione per i poliziotti, o quello di Stefano Cucchi a Roma, i cui processi hanno finora dato come risultato delle assoluzioni (mentre è in corso una nuova inchiesta sull’operato dei carabinieri) hanno creato nel corso del tempo una sorta di “format”. Tutti questi casi sono stati accomunati in un unico grande problema politico, quello della violenza dello Stato contro cittadini inermi.
Ciò che spesso é accaduto, in questo senso, è stata la riproposizione di un eterno caso Pinelli, come se lo stato italiano vivesse, dal 1969, una “coazione a ripetere” sempre lo stesso errore. Ovvero portare persone borderline, ai margini della società, magari dissenzienti rispetto al potere, in una caserma o in una questura, e poi massacrarla di botte.
Di fronte a questa pressione mediatica, la procura di Varese si era espressa più volte contro il processo ai poliziotti e ai carabinieri. La contestata indagine del pm Abate fu interpretata come una volontà di nascondere i fatti, ma già il secondo pubblico ministero Felice Isnardi concluse che non vi erano prove per iniziare questo processo, e fu solamente una decisione del giudice delle indagini preliminari a portare gli imputati in corte d’assise.
Per la terza volta, con il pm Daniela Borgonovo, la pubblica accusa ha concluso che questa vicenda non è stata un pestaggio, e nonostante l’avvocato di parte civile Fabio Ambrosetti sia stato banalmente aggressivo e non sempre sereno, in aula e con i giornalisti, la vicenda si è conclusa con l’assoluzione di tutti per un motivo più che semplice: non vi sono mai state prove che Giuseppe fosse stato picchiato da poliziotti o carabinieri.
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