Con il rientro dei giovani imprenditori nascerà la Silicon Valley italiana
Stefano Caccia, da 22 anni in California, è intervenuto all'Università Liuc per spiegare a studenti e imprenditori che cos’è e come funziona un ecosistema dell’innovazione
A portarlo fino a Castellanza ci ha pensato Uber, perché a Milano i tassisti erano in sciopero. Stefano Caccia, a diecimila chilometri di distanza dalla sua Silicon Valley, è stato aiutato da una delle trentamila startup disseminate tra San Jose e la baia di San Francisco. Milanese di nascita, Caccia si è trasferito in California 22 anni fa per motivi di studio e alla fine ci è rimasto. Considera la Silicon Valley la sua seconda casa perché fin da piccolo seguiva il padre, ingegnere elettronico, nei periodici pellegrinaggi nella terra promessa dell’innovazione. La sua base operativa è a Menlo Park e sul retro del biglietto da visita ha fatto stampare i tre slogan di Us Mac, l’acceleratore di cui è direttore per il programma italiano: think big, start smart e scale fast.
Caccia, lei è stato invitato dall’università Liuc per spiegare agli studenti e agli imprenditori che cos’è e come funziona un ecosistema dell’innovazione. I dati dicono che l’Italia è in forte ritardo, non solo rispetto alla Silicon Valley ma anche ai principali paesi europei. Come si fa a colmare questa distanza?
«Il problema è culturale anche se già rispetto a cinque anni fa c’è stato un cambiamento. È un percorso lungo se pensiamo che in Silicon Valley ci sono già le terze generazioni di imprenditori».
Quanto servono strumenti come gli acceleratori o gli incubatori di imprese innovative per invertire la tendenza?
«L’aspetto centrale è la formazione, è da lì che bisogna iniziare. E il ruolo di formatori può essere svolto da quegli stessi imprenditori che sono andati fuori dall’Italia e che un giorno nemmeno troppo lontano potrebbero decidere di rientrare con una mentalità nuova e diversa. Recentemente Stefano Bernardi dopo 5 anni trascorsi in California ha annunciato che rientrerà a Trento».
Però ha scelto una delle aree italiane a più alta densità di startup…
«È vero, ma la sua esperienza ritornerà in Italia con lui. È questo quello che conta perché l’ecosistema si forma con il tempo, la Silicon Valley come luogo dell’innovazione esiste dal 1940. È un processo che ha dei passaggi che riguardano anche la finanza».
Questo è uno dei problemi più grandi perché in Italia il venture capital è quasi inesistente, così come lo sono gli angel investor.
«I soldi in Italia ci sono ma non vengono impiegati per finanziare le imprese innovative. Quando dico che è un problema culturale intendo proprio questo. Negli Stati Uniti e quindi non solo nella Silicon Valley il rischio nell’investimento è accettato socialmente. Se poi parliamo di startup il fallimento è considerato normale, anzi, l’imprenditore impara sbagliando. Gli investitori americani quando devono decidere se darti i soldi o meno valutano quante startup hai già realizzato, quante exit ci sono state nella tua storia imprenditoriale».
Le terze generazioni di cui parlava sono già pronte al rientro nella terra di origine?
«Tra gli imprenditori italiani della Silicon Valley è un tema presente. Le nuove generazioni non portano solo nuova conoscenza ma anche i soldi guadagnati dai loro predecessori. Non dimentichiamo che sei delle dieci società più capitalizzate al mondo sono lì. Inoltre, dei 182 unicorni, cioè quelle startup che hanno un valore superiore al miliardo di dollari, 63 sono dislocate nel corridoio che corre da San Jose a San Francisco».
In che cosa è originale la cultura della Silicon Valley?
«In tutto ed è il risultato dell’altissima densità di talenti e risorse in uno spazio piccolissimo. Parli con i tuoi concorrenti, cambi lavoro spesso e in media hai un successo dopo la settima startup».
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