Il welfare aziendale non può sostituire il salario
Cgil, Cisl e Uil intervengono al convegno di Univa alle Ville Ponti su welfare e premi di risultato

I tre segretari provinciali del sindacato confederale, Antonio Massafra (Uil), Umberto Colombo (Cgil) e Roberto Pagano (Cisl), erano in prima fila al convegno organizzato dagli industriali alle Ville Ponti sul tema del welfare e dei premi di risultato. Hanno ascoltato e si sono consultati più volte soprattutto durante l’intervento di Pierangelo Albini, direttore Lavoro e Welfare di Confindustria. (foto, da sinistra: Roberto Pagano, Umberto Colombo e Antonio Massafra)
«In questi anni di crisi i lavoratori hanno fatto molti sacrifici – dice Umberto Colombo – e in molti settori, pensiamo al metalmeccanico, hanno garantito la produzione nonostante il contratto fosse scaduto. Più volte è stato ripetuto che non ci sono soldi da redistribuire ma oggi che ci sono segnali di ripresa va rinnovato il contratto e ripartita anche quella parte di salario non riconosciuta nel recente passato. A noi il discorso del welfare sta bene ma non può essere sostitutivo del salario e tantomeno del welfare state. Occorre riconoscere quanto spetta ai lavoratori perché se lo sono guadagnato».
Il riferimento di Colombo è al passaggio in cui Pierangelo Albini ha sottolineato che oggi non c’è ricchezza da distribuire ma bisogna cooperare per generarla. «Il fatto che nelle aziende si contratti il welfare – aggiunge Roberto Pagano – a noi va benissimo, ma bisogna stare attenti a non far passare il concetto che il welfare statale non è più necessario perché quando un lavoratore esce dal mercato del lavoro deve avere il welfare garantito, indipendentemente che ci sia o meno quello contrattato nella sua ex azienda. In provincia di Varese, in questo senso, abbiamo fatto accordi aziendali interessanti, ma sempre tenendo fermo il riferimento a una contrattazione nazionale».
Per Antonio Massafra della Uil il cuore problema sta proprio nella mancata redistribuzione della ricchezza generata durante gli anni della crisi. «Se il 78% della ricchezza prodotta nel paese è nelle mani del 20% della popolazione – spiega il segretario della Uil – vuol dire che c’è qualcosa che non va. Questo dato solo 15 anni fa era di dieci punti percentuali in meno, quindi la crisi ha allargato la forbice tra chi è ricco e chi fa fatica a tirare avanti. Le aziende hanno approfittato della crisi per scremare i costi e hanno continuato a produrre tagliando posti di lavoro. Questo spiega il divaricamento della forbice della ricchezzza, ora la contrattazione dovrà riportare in equilibrio questa situazione».
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