Il pupillo di Borghi che ha costruito il suo impero in garage
Pietro Onofrio alla guida di Onostampi racconta la sua azienda ai ragazzi delle medie nel corso della visita per Pmiday
Tre stabilimenti su un’unica strada, e 25 dipendenti che lavorano come in una grande famiglia, quella della Onostampi di Bardello, creazione di Pietro Onofrio, uno dei golden boy di Giovanni Borghi: per una scommessa lasciò la Ignis di Cassinetta e riuscì a costruire il suo mondo partendo da un garage.
Questa azienda si occupa di stampi e produzioni per materie plastiche ed è stata al centro di una accurata visita da parte degli studenti del terzo anno delle medie Dante Alighieri di Cocquio Trevisago nell’ambito di pmiday2016, l’iniziativa di Univa per collegare il mondo del lavoro con quello della scuola.
Onofrio aspetta l’arrivo dei ragazzi nel suo studio al primo piano in compagnia del West Higland white terrier Apollo, e di Maia, l’inseparabile Rottweiler mascotte dell’azienda. Il terzo si chiama Lapo, un trovatello, che sta in disparte, dice la figlia Tania, che insieme al fratello Alessio formano il nocciolo duro di questa azienda conosciuta in tutto il mondo con clienti in America, ma anche in Cina, o nei paesi del Golfo.
L’azienda è specializzata nel settore automotive e medicale, con pezzi che necessitano di studio, precisione e controllo maniacale, reso possibile da strumentazioni che letteralmente “spaccano il capello”.
«Del resto se non sei preciso, non vai da nessuna parte», dice Onofrio, raccontando a menadito ogni macchina, ogni pezzo e processo di lavorazione che fa stupire per le scintille di un filo di rame capace di plasmare il metallo in acqua, con una scossa elettrica, o macchine dove da una manciata di palline di plastica, i polimeri, nascono bacinelle colorate, rocchetti per filati e chissà quante altre produzioni.
È il miracolo delle forme, l’alchimia che trasforma la materia e la fa combaciare con altri componenti che trovi nella vaschetta dello sciacquone in bagno, nel cruscotto dell’auto o nelle “pre-protesi” per delicati interventi chirurgici: ginocchia, anche, ricostruzioni chirurgiche dove la postura degli arti diventa fondamentale in sala operatoria, grazie anche a quanto esce da questa azienda sobria e quasi invisibile dalla strada, nascosta da una lunga inferriata o fra le villette a schiera.
La guida, per i reparti dell’azienda, è affidata a Simone Vinocchi, uno dei tanti “sfornati” dal Cobianchi (una scuola tecnica di Verbania nda), maturati però in azienda. Si lavora qui se si ha la testa per crescere e per rimanere, rendendosi conto di avere tra le mani un gioiello di tecnologia, ma coi piedi per terra.
«Mio padre mi ha sempre insegnato a fare il passo del contadino, a stare con un piede sulla terra dura e l’altro sulla zolla appena dissodata – spiega Onofrio – . Per me vuol dire essere riuscito in questi anni a seguire la regola dei “tre terzi”: un terzo del guadagno nelle macchine, un terzo come patrimonio liquido, un terzo nel mattone».
Per questo la Onostampi ha realizzato un vero e proprio quartiere industriale – condiviso anche con altre realtà – che si snoda su di una strada, appunto la via Piave a Bardello dove trovano spazio la progettazione e l’amministrazione, l’officina per la realizzazione degli stampi, e la produzione, assieme al controllo di qualità.
Tre strutture realizzate passo passo, come passo passo Onofrio ha il grande orgoglio di raccontare l’esperienza di questi lunghi quarant’anni da imprenditore. Siamo nell’officina, coi ragazzi tutti presi a capire come funzionano le macchine, e lui sta a godersi lo spettacolo, capisce a cosa stai pensando, ti prende sottobraccio e dice, indicando quel soppalco: «Vede lassù? Ecco ho incominciato lì, con la carta lucida, ancora arrotolata negli scatoloni, che racchiudono tutti i disegni fatti quando non c’erano i computer. Lì sopra, mia moglie il sabato sera mi portava la minestra: “Arrivo tra un attimo” – le dicevo. Ma tiravo le cinque del mattino».
Una domanda non può restare sulla punta della lingua: perché lasciare la Ignis? «Avevo 23 anni. Era il 1973. Ed ero caporeparto, sotto di me avevo 105 persone. Giovanni Borghi mi adorava, ogni volta che passava in fabbrica, e mi trovava con la tuta blu invece del camice bianco mi sgridava: “Ti te ghet de tenel adoss, quel bianc!”, devi indossarlo, mi diceva, il vestito del capo. Un giorno un amico mi fa: sei bravo a lavorare, certo, ma sapresti fare l’imprenditore? Scommetto di no. E io, con un pizzico di follia, mi sono licenziato, mi sono fatto prestare 500 mila lire da mia zia e ho comprato un tornio, e nel garage di casa ho incominciato».
Pietro racconta di gavette feroci, viaggi in solitaria per l’Europa, trasferte in Cina nei primi anno 90’, sempre da solo, senza sapere una parola di inglese, o in Brasile, alla scoperta di nuovi mercati. Anni duri, ma ricchi di soddisfazione: «Se volevi, potevi. Oggi è più difficile». Parla un uomo che non teme la concorrenza straniera perché continua ad investire nella tecnologia: «Se non hai queste, ora non vai da nessuna parte – spiega indicando una macchina ottica da verifica dimensionale dal valore di oltre 100 mila euro», strumenti che permettono non solo di realizzare il pezzo per il cliente, ma anche di certificarne la qualità in uscita.
Prima di arrivare all’ultimo reparto, quello dello stampaggio dove i ragazzi giustamente scherzano indossando qualche bacinella come fosse un berretto, c’è tempo per qualche chiacchiera su come si scelgono i dipendenti: «Tutti, o quasi, della zona. Sa, qui non è come in città. Qui nei paesi si conoscono le famiglie. Si cerca di capire cosa passa per la testa dei giovani che si portano in azienda. E poi li si forma. Una volta entrati non vogliono andare via più: si figuri che un dipendente in pensione mi ha chiesto di tornare a lavorare: e non è per colpa della moglie, mi creda».
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