Leoni da tastiera che si credono Dio
Una lettrice fa un'interessante riflessione sui commenti postati dagli utenti sulla nostra pagina Facebook. La risposta del direttore Marco Giovannelli
Caro Direttore,
non mi sono mai permessa di scriverle una lettera, sebbene legga le vostre notizie praticamente tutti i giorni.
Sono una ragazza di 26 anni come tante, con un lavoro normale e una vita normale di provincia. Sono una cittadina come tante.
Una cosa però da un po’ di tempo mi lascia molto interdetta quando leggo i vostri articoli o i vostri post su facebook: le risposte “del pubblico”. Sono sempre moltissime, specialmente sui social network, e alcune, non so se perchè le ho lette con più con attenzione nell’ultimo periodo, sono davvero agghiaccianti.
Sono una persona a cui i social piacciono: li uso ogni giorno, il più possibile con cognizione di causa. Ciò che mi ha spinto in particolare a scrivervi oggi è una breve considerazione riguardo il drammatico fatto del ragazzo purtroppo deceduto in un incidente ieri sera: l’evento è già di per sé tragico, ma ancora peggio a mio avviso, come persona non direttamente coinvolta nella vicenda, lo sono i commenti degli utenti che si sono permessi di “esprimersi”.
Commenti come “assassino” , “meriti la morte”, “avrai tempo di pensare a quello che hai fatto” ecc.
Considerazione: chi siamo noi dai dietro un computer per permetterci di fare questo? Cosa vogliamo dimostrare al mondo? Quale posizione stiamo prendendo nel commentare una notizia in questa maniera?
La cosa che mi lascia più stupefatta è che a scrivere i commenti sono persone di una certa età, non certo dei giovincelli, che da dietro ad uno schermo si sentono in dovere di poter esprimere il loro pensiero senza filtri. Ecco, mi chiedo: ma queste persone che esempio sono? Per i loro figli, nipoti, ma anche amici. Cosa vogliono ottenere? Che sensazione provano dopo aver scritto un commento del genere? Perché per scrivere un commento uno deve essere ben convinto, dato che il proprio nome è li in bella vista a tutti.
Ma soprattutto è questo quello a cui la società ci porta? Le notizie devono girare, sulle modalità ognuno ha una sua opinione, ma stiamo andando verso l’anarchia della libertà di espressione?
Faccio un esempio, riprendendo quello che è purtroppo accaduto ieri.
L’errore è errore, e l’errore va condannato. L’errore viene condannato, condannando l’uomo che lo ha commesso, non c’è altra via. Ma è proprio questo il punto: è uomo.
Non lo dico per giustificare l’azione, ma quanti di noi rispondo per esempio al telefono guidando, o si fanno distrarre da un messaggio, o non rispettano i limiti di velocità? Quanti di noi (e questa è una cosa davvero allarmante) postano “instagram stories” “girate” alla guida?
Quanti di noi a volte nella fretta non rispettano il codice della strada? E ci va sempre tutto bene, fino a quando un giorno il destino ci gioca un brutto scherzo. E’ vero, la possibilità di evitare l’errore dipende da noi, dal nostro fare le cose in coscienza, ma se ci dovesse capitare di sbagliare e di dover convivere per sempre con il nostro senso di colpa, saremmo pronti a vedere la nostra vita ridotta ad un solo errore?
Un uomo che commette un errore si è già condannato, ma chi sta fuori come può pensare di ridurre l’intera esistenza di una persona ad un solo errore esprimendo un giudizio quanto mai fuori luogo? Questa persona ha sbagliato, come sbagliamo tutti ogni giorno: il suo è stato un errore grave e ne pagherà le conseguenze. Ma crediamo che lui non lo sappia? Che il nostro giudizio sia necessario? Che rispetto abbiamo anche della sua di famiglia?
Che cosa sappiamo di lui? Magari ha fatto inversione perchè era in ritardo per la partita di basket del figlio a cui aveva promesso di andare. NON sto dicendo che questo annulli la sua colpa o la renda meno grave, ma darebbe dignità ad una persona, che si ha sbagliato e dovrà convivere per sempre con questo. Ma è un uomo.
Saremmo pronti ad usare le stesse parole taglienti e forti (“assassino”) se a sbagliare fosse nostro padre, nostro fratello, nostro figlio, nostro marito?
E’ questo ciò a cui siamo chiamati? Ad essere “Dio” da dietro uno schermo? Forse sì, è quello che ci si aspetta da noi, che commentiamo con i “tweet” le trasmissioni televisive in tempo reale.
Ciò che mi ha allarmata è l’aver visto tra i commenti nomi di persone che conosco, che sono madri e padri…io sono educatore dei loro figli, e purtroppo ho pensato che ora capisco molte cose. Cosa possiamo aspettarci dai “giovani” se questo è un mondo di giudizi delle “bestie”?!
Cordiali saluti
Silvia
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Cara Silvia,
siamo nell’era della comunicazione e della condivisione, ma anche in quella del paradosso. La tua lettera ne è un esempio perfetto. Non entro nel merito della vicenda, anche perché è solo uno dei tanti esempi possibili.
Certo, tu ti spingi un po’ oltre il limite quando provi a formulare alcune delle giustificazioni per chi ha procurato l’incidente mortale, ma il vero punto non è quello.
I social vanno a finire sul grande bancone degli imputati e sembrano essere loro i colpevoli di tanto odio e rancore che si respira. Sono quelli stessi social che danno un accesso facile alla Rete e quindi anche la possibilità di parola a tutti. Facebook in particolare è una grande piazza dove chiunque può entrare e dire la sua. Non è anarchia, si chiama libertà. È una ricchezza importante e dobbiamo sempre tenerlo presente. Le regole ci sono, e noi che amministriamo la pagina cerchiamo di farle rispettare. Su Varesenews, che sia il giornale o sia Facebook non si fanno differenze. Non si accetta l’incitazione alla violenza, al razzismo, alle discriminazioni. Non sempre riusciamo a contenere e moderare tutti i commenti. Questo è un prezzo alto da pagare, ma siamo convinti che valga comunque la pena di correre questo rischio per diverse ragioni che spiego dopo.
Le altre regole le mette la legge. Le persone che scrivono spesso non sono consapevoli che sono penalmente e civilmente perseguibili. Iniziano ad esserci indagini e processi anche solo per i commenti postati su Facebook.
Ma veniamo al punto più delicato. L’era della connessione e condivisione porta anche a grandi paradossi. Il primo lo viviamo noi editori e giornalisti. Forniamo contenuti alle grandi piattaforme tecnologiche che poi sono i nostri principali competitor. Loro, Facebook e Google in cima, assorbono oltre il 70% delle risorse che produce la Rete lasciando di fatto le briciole a tutti gli altri.
Il paradosso però non riguarda solo noi “addetti ai lavori”, ma anche tutti i cittadini a prescindere dall’età anagrafica. Dentro i social ci siamo noi, gli individui, le azienda, le associazioni, le istituzioni. Noi con le nostre storie, le nostre culture, le nostre bellezze, le nostre intelligenze, i nostri limiti, le nostre “miserie”, le nostre debolezze e fragilità. Facebook in particolare sta permettendo di far emergere tutta questa umanità e, insieme con questa, anche una discreta disumanità.
Questo, a volte, ci spaventa, ci scatena dubbi sul senso della democrazia e della libertà, ci preoccupa perché la società che emerge spesso non ci piace, ci fa perfino orrore. Conoscere la realtà provare a capirla, ad analizzarla è una grande responsabilità, ma non c’è nessuna altra strada per comprendere che il mondo è formato da ognuno di noi e solo la propria consapevolezza può migliorarlo. Questo attraverso le scelte individuali e il nostro contributo a quelle collettive.
Nella tua lettera racconti la tua professione di educatore e quindi conoscerai bene questi processi. Come conoscerai bene il fatto che il paradosso diventa parte di ognuno di noi. Se rileggi le tue ultime righe potrai comprendere quanto sia alto il rischio e ci sia entrata anche tu. «Ciò che mi ha allarmata è l’aver visto tra i commenti nomi di persone che conosco, che sono madri e padri…io sono educatore dei loro figli, e purtroppo ho pensato che ora capisco molte cose. Cosa possiamo aspettarci dai “giovani” se questo è un mondo di giudizi delle “bestie”?»
Sta a noi, a ognuno di noi, costruire quel futuro migliore, malgrado i “leoni da tastiera” come li chiami tu. A tutti ci scappa il giudizio facile. Anche quando pensiamo di avere tutte le ragioni del mondo dobbiamo fare grande attenzione perché restiamo immersi in quell’era del paradosso dove i rischi si moltiplicano.
In ogni caso grazie per la tua lettera e per il tempo che hai dedicato a una questione spinosissima e molto delicata. Il tuo contributo ci ha permesso di tornare a parlarne.
Buon lavoro e buon tutto.
Il direttore Marco Giovannelli
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Comunicare è molto più complesso che mandare un post, 120 caratteri massimi o qualche faccina.
Comunicare comporta guardarsi, gesticolare, la postura del corpo, come si muovono mani e braccia.
Comunicare comporta fatica.
Comunicare vuol dire anche ascoltare l’altra parte. Per poi rispondere.
Di conseguenza tutto quello che è social risulta totalmente artificiale e costruito. Le norme sociali sono ancora l’elemento cardine della comunicazione tra esseri umani ed aver sostituito il contatto fisico con quello surrogato di una tastiera ha completamente cambiato le regole del gioco.
La nostra foto, il nostro nickname, i nostri amici tutti sorridenti NON contribuiscono a creare la nostra persona ma semplicemente plasmano il nostro alter-ego uniformato sul web.
Ed il nostro alter-ego è parziale, è frammentario, come la stessa metodologia comunicativa che usiamo sui social network. Frasi breve che necessariamente devono essere d’effetto, pena non ti cliccherebbe nessuno.
E così facendo è totalmente finto, non ci rappresenta.
Sarebbe molto più sensato eliminare la parola “social” dal network in quanto di reale c’è veramente poco, è semplicemente lo sfogatoio facile, immediato, pronto all’uso e rapido delle proprie pulsioni represse.
Felice Griffi
Tradate