In economia e finanza ci sono troppi luoghi comuni
Dalla vittoria di Trump all'euro poco conveniente. Giorgio Arfaras, economista del Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi, smonta le convinzioni più radicate tra gli italiani
Oylem Goylem in ebraico significa: il mondo è pazzo, scemo. Ma a renderlo tale sono gli uomini, non Dio. Secondo Giorgio Arfaras (foto), economista del Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi, autorevole istituto guidato dal professor Mario Deaglio che ogni anno redige un rapporto (siamo al XXI) sull’economia globale e l’Italia, un grosso contributo a rendere il mondo abbastanza incomprensibile lo dà «la contabilità nazionale pervasiva» che ci subissa di informazioni e fotografie isolate e da cui si fa dipendere il destino del mondo. «Ormai fa parte di una mentalità collettiva», osserva Arfaras che oltre a capirci qualcosa ha abbastanza humor da smontare le convinzioni più radicate tra gli italiani in tema di economia e finanza.
COME SI MISURA IL TEMPO LIBERATO?
Nella presentazione del XXI rapporto Einaudi, organizzato da Ubi Banca in Camera di Commercio a Varese, l’economista ha iniziato dal Pil, sigla che sta per Prodotto interno lordo e misura la ricchezza prodotta da un paese in beni e servizi. È ancora adatto a rappresentare la realtà? «Il pil – spiega Arfaras – era una gran cosa nell’economia industriale, ma oggi è molto difficile da quantificare. Io ho tre abbonamenti ai giornali che ricevo sul mio ipad e smartphone, perciò non vado più in edicola a comprarli. Dietro il giornale di carta non c’era solo l’edicolante, ma una serie di figure dal tipografo fino a chi lavorava nelle cartiere. Molte di queste figure sono scomparse, ma il consumatore, anche se non va più in edicola, è rimasto. Quindi in questo processo si è liberato del tempo, cioè un vantaggio, per il quale non ci sono sistemi di misurazione adeguati».
E se è vero che il tempo è la vera risorsa scarsa degli uomini, il problema è trovare indicatori efficaci per misurare la nuova ricchezza.
È CRESCIUTA O NO L’OCCUPAZIONE?
Riguardo ai numeri sull’occupazione in Italia è ancora fresca la diatriba tra Inps e Istat. Il direttore generale del ministero del Lavoro, Paolo Onelli, in un recente convegno sul Jobs Act alle Ville Ponti disse: «La statistica non è materia facile da trattare e sarebbe sempre buona cosa comunicare con una certa sicurezza le fonti e i dati». Il rapporto Einaudi a pagina 202 affronta la questione e arriva alla conclusione che in due anni, dal 2014 al 2016, l’occupazione è cresciuta di circa 900mila unità, con una variazione pari al 4%. Il risultato finale viene ottenuto sommando il dato ufficiale delle 700mila unità di lavoro con i rientri dalla cassa integrazione. Nel 2013 erano state erogate 1.102 milioni di ore (pari a 580mila unità di lavoro annualizzate), nel 2015 si è scesi a 682 milioni di ore (pari a 360 mila unità di lavoro annualizzate).
TRUMP È ESPRESSIONE DEL POPULISMO CONTRO LE ÉLITE?
L’avversione all’establishment, rappresentato dalla candidata alla presidenza Hillary Clinton, è stata la chiave di lettura più usata dai commentatori per giustificare la vittoria di Trump alle ultime elezioni americane. Un’analisi facile, troppo facile, secondo Arfaras, perché il malessere dei ceti meno abbienti andrebbe invece letto in un contesto modificato e più complesso rispetto anche al passato più recente. «Un tempo l’operaio della Ford che perdeva il lavoro – dice l’economista – poteva posticipare i propri consumi e questo ritardo durava poco perché in tempi brevi trovava un nuovo lavoro. Oggi non è più così: l’americano che perde il lavoro ci mette più tempo a trovarne uno nuovo, aspetto che modifica la struttura dei consumi dei beni durevoli. Quindi il lavoratore ha meno elasticità nel rimandare questi consumi, stiamo parlando di beni strutturali, come la sanità o le tasse scolastiche, per i quali trovare una soluzione è molto più complicato». Insomma, Trump non avrebbe vinto per l’antipatia generata nelle masse dalla Clinton, ma perché ha dato una risposta all’ansia crescente di soddisfare bisogni essenziali e non più differibili nel tempo. Che il neopresidente ci riesca o meno, è tutto da verificare.
EURO SÌ, EURO NO
Il dibattito sulla convenienza per l’Italia di rimanere nel sistema dell’euro occupa una parte importante dello scontro politico. C’è chi vede, soprattutto a destra, l’abbandono dell’euro come il passo più importante per ritornare a una sovranità piena e chi invece lo vive come una sciagura. A questo proposito, il giornale online Linkiesta ha pubblicato una servizio interessante (Altro che povertà, l’euro e la globalizzazione ci hanno salvato lo stipendio) dove, dati alla mano, si dimostra che gli italiani tutto sommato con l’euro ci hanno guadagnato, pagando meno molti prodotti di importazione. Mentre ci hanno perso in tutti quei prodotti e servizi forniti dallo stato sovrano. Dunque ci conviene essere europei in tutto e per tutto. «Se oggi ci fossero la lira e il marco – argomenta Arfaras – e la Brembo vendesse freni alla Bmw, l’azienda italiana ci perderebbe molto».
LA GLOBALIZZAZIONE È FINITA?
«No – conclude Arfaras – la globalizzazione si è riqualificata, ma non è finita. Quanto a noi: abbiate pietà, il malato Italia sta guarendo».
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