Collaborate con pazienza perché il digitale ci rende globali
“Il percorso dell’impresa digitale” era il tema del convegno promosso da Inaz, azienda specializzata in soluzioni e servizi per la gestione del personale. L'evoluzione in atto cambia il modo di concepire il lavoro e i luoghi dove questo si svolge
Nessuna paura: al centro della transizione digitale c’è sempre e solo l’uomo. La tecnologia è solo un fattore abilitante che va governato con consapevolezza per ridurre al minimo i danni collaterali che pur ci sono insieme alle grandi opportunità. È questa la strada che il convegno “Il percorso dell’impresa digitale”, organizzato da Inaz di Milano, ha indicato ai tantissimi presenti nella sede di viale Monza.
Se è vero, come hanno ribadito gran parte dei relatori, che ci si trova di fronte a una vera e propria rivoluzione culturale, allora la scelta di Linda Gilli, presidente e ad di Inaz, di far dialogare su questo tema accademici, professionisti e diverse generazioni di imprenditori, ha contribuito a tracciare quella strada.
CIO’ CHE CONTA È LA CONOSCENZA
«Quando ci sono i cambiamenti bisogna ricercare l’indipendenza di pensiero che si trova nelle università». L’affermazione sintetica ed efficace dell’economista Marco Vitale, in apertura di convegno, ha chiarito la direzione da prendere. La rivoluzione digitale è un salto antropologico senza precedenti e come tale, per essere affrontato, ha bisogno di una conoscenza profonda.
Giangiacomo Schiavi, giornalista del “Corriere della Sera” e moderatore del convegno, ha rispolverato una frase del grande Giorgio Bocca: «Non c’è più informazione, ma confusione». Un rischio che non corre Francesco Beraldi, imprenditore seriale e startupper cresciuto in Olivetti. Insomma, uno che l’innovazione ce l’ha nel dna. E forse non è un caso che, per mostrare cosa intenda lui per trasformazione culturale, abbia usato proprio l’immagine della doppia elica del codice genetico . «Non c’è trasformazione digitale – ha detto Beraldi – se non c’è open innovation, senza acquisizione di conoscenza si rischia di fallire. La curva di trasformazione è intrapresa quando il digitale non è più una necessità ma un mezzo spontaneo per risolvere i problemi».
A CHE PUNTO SIAMO
L’Italia ha i talenti, ma non si impegna abbastanza. È venticinquesima nella classifica dell’Unione Europea per digitalizzazione e nell’ambito tecnologico gli mancano quasi 35mila specialisti. Eppure, secondo i dati presentati da Virginio Cantoni, professore di sistemi per l’elaborazione delle informazioni all’Università di Pavia, la digitalizzazione nella percezione dei lavoratori nostrani è molto alta. In un sondaggio condotto nel 2016 che ha coinvolto oltre 10mila lavoratori dei maggiori stati dell’Unione Europea oltre che di Brasile, Usa, Giappone e Turchia, ben l’85% di quelli italiani ha dichiarato di essere disponibile a impegnare il tempo libero per aggiornarsi. «Questo confermerebbe – ha sottolineato Vitale – che l’italiano è un popolo individualmente creativo in un Paese conservatore».
COLLABORARE E CONDIVIDERE
Sulla scarsa propensione dell’Italia a innovare, ne sa qualcosa Davide Dattoli, fondatore e ceo di Talent Garden spa, la piattaforma fisica dove creativi e professionisti del digitale lavorano e si incontrano. Tradotto nella filosofia di questo giovanissimo innovatore, significa che «il digitale ci rende globali e se non collaboriamo non andiamo da nessuna parte».
Da qualche parte invece si riesce ad andare se si praticano condivisione e collaborazione. L’intervento di Dattoli è iniziato con una grande provocazione: «Nel 2007 è stato lanciato sul mercato l’iPhone e nel 2008 è nato Facebook. Siamo sicuri che è l’anno della crisi?». Lui dice che dal digitale ha imparato cinque lezioni: a non nascondere i problemi, sviluppare la collaborazione, non aver paura del fallimento, lavorare in team, andare oltre il semplice business e ragionare sempre in termini di ecosistema complessivo. Ciò che non fa l’Italia che ogni anno sforna 13.061 laureati in giurisprudenza, con un tasso di disoccupazione del 75%, contro i 198 ingegneri del Politecnico di Milano che hanno un tasso di disoccupazione pari a zero.
CERVELLO E DIGITALIZZAZIONE
Per uno psicanalista e psichiatra come Alberto Maria Comazzi la digitalizzazione pone un problema: l’uso delle mani che fine ha fatto? L’homo faber ha lasciato per sempre il posto all’homo sapiens? «La scoperta del piacere nei primati è legata all’uso delle mani – ha spiegato Comazzi -. Non è vero che quando gli scimpanzé si toccano l’un l’altro è per togliersi i parassiti, lo fanno anche quando non ne hanno perché provano piacere. Se oggi noi possiamo usare il digitale è perché il nostro cervello è cambiato. L’uomo primitivo è grazie alla pazienza che ha creato dei manufatti, mentre oggi il digitale ci rende frenetici».
Dalla pazienza delle mani al loro movimento ossessivo sulle tastiere, dal piacere condiviso del contatto umano all’isolamento frenetico della tecnologia. «La ragione di tutto questo – ha sottolineato lo psicanalista – sta nel fatto che il cervello ha un carico di energia enorme e per scaricarlo con il digitale bisogna isolarsi. Lo smartphone diventa così un rifugio. Io preferisco rifugiarmi nella memoria e nei sentimenti ad essa collegati».
LA TRADIZIONE AI TEMPI DEL DIGITALE
Ludovica e Valerio Busnach, terza generazione in Inaz, partono dall’insegnamento del loro nonno, Valerio Gilli, che nel 1948 fondò l’azienda specializzata in soluzioni e servizi per la gestione del personale. Inaz sta infatti per “innovazione aziendale” e la sua missione, nell’immediato dopoguerra, era contribuire alla ricostruzione del Paese aiutando le aziende a riorganizzarsi attraverso, appunto, nuovi strumenti. Valerio Busnach ha portato davanti alla platea un libro mastro dove in triplice copia in carta carbone si segnavano le presenze in azienda dei lavoratori. Una sorta di foglio excel ante litteram. «Inaz ha da sempre un orecchio rivolto ai clienti e uno alla tecnologia che evolve rapidamente» ha detto il giovane manager.
L’evoluzione digitale cambia il modo di concepire il lavoro e i luoghi dove questo si svolge. «Perché un giovane – ha aggiunto Ludovica Busnach – dovrebbe usare un badge o essere presente in azienda, quando può lavorare da qualsiasi altro posto? ». Il ruolo delle risorse umane è cambiato perché la digitalizzazione del lavoro ha cambiato il contesto. «I dipendenti chiedono di applicare le nuove tecnologie digitali, come i social, nel processo produttivo e si sta affermando sempre di più la cultura della collaborazione, passando dalla funzione al team, da una logica di prodotto a una di servizio».
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