Mauthausen, “Io ho visto”
Renzo Galli ha partecipato nella primavera del 1945 alla sepoltura dei corpi dei prigionieri del campo di concentramento austriaco. Da allora non può dimenticare
«Gli americani ci avevano chiesto di dar loro una mano per fare pulizia in quel campo, ché se avessimo lavorato per loro saremmo tornati a casa prima. Noi accettammo, quasi senza sapere. Poi abbiamo visto. E ci hanno spiegato».
Renzo Galli ha 94 anni. Fa un po’ di fatica a camminare nella sua casa di Cunardo, proprio di fianco alle piste da sci. Fatica a sentire, ci vede poco, ma la sua memoria è infallibile e ricorda ogni cosa degli anni della guerra. Di quando, poco più di un ragazzo dovette vestire la divisa.
«Trentottesimo reggimento di fanteria, divisione Ravenna. Ma non sparai un colpo in guerra, ci presero i tedeschi a Tortona dopo l’armistizio dell’8 settembre».
Così Renzo, a 19 anni, si trovò prigioniero di guerra e, poco dopo IMI, (Italienische Militär-Internierte) Militare Italiano Internato, la definizione giuridica inventata da Hitler e affibbiata agli oltre 600 mila italiani che si rifiutarono di combattere al fianco dell’esercito tedesco invasore.
Per quegli uomini, questa scelta (descritta dal Presidente Sandro Pertini come “prima resistenza”) aveva un nome preciso: campo di concentramento.
Da lì privazioni, fatica disumana e la fuga, in qualche modo, per cercare di tornare a casa quando i cannoni russi e americani bussarono alle porte del Reich. Un passaggio raccolto in un volume dell’Anpi di Luino di qualche anno fa, che proponiamo in calce all’articolo, dove nel dettaglio viene raccontata la disavventura di questo militare.
Il punto è che Renzo è uno degli ultimi testimoni viventi di quello che videro i liberatori del campo di Mauthausen, in Austria. I cancelli del lager vennero aperti all’inizio di maggio del 1945 dalla prima divisione corazzata Usa.
Renzo, assieme ad altri militari italiani prigionieri degli stessi Alleati, non entrò subito nel campo.
«Gli americani ci chiamarono qualche giorno dopo, proponendoci lavoro in cambio di un rapido ritorno a casa. Sarà stato verso il 20 maggio. E ci portarono al campo».
A questo punto il racconto del signor Galli assume le tinte buie di quei giorni.
«All’interno trovammo morti dappertutto. C’erano fosse comuni piene zeppe di corpi. Civili, militari. Divise russe, scarpe, oggetti. Questo ho visto. Non lo dimenticherò mai».
Sono giorni di lavoro duro, ma non come quello nella fabbrica Dynamit di Troisdorf a Colonia. Di più. In quel momento lui e gli altri suoi commilitoni non sapevano dell’esistenza di campi come Mauthausen, dove il lavoro era finalizzato alla morte dei prigionieri. Sapevano qualcosa, certo, ma non potevano immaginarsi ciò che videro coi loro occhi.
«Una cosa che non potrò mai dimenticare fu il primo giorno, quando entrammo nel campo e trovammo una persona a terra, che si muoveva. Ci avvicinammo, cercammo di sorreggerla. Il suo corpo ci si ruppe tra le mani e in quel momento morì. Fu una cosa terribile».
Oltre ai militari prigionieri degli alleati, anche i residenti della zona vennero fatti lavorare.
«Nel campo entrarono molti civili, ricordo anche il sindaco di un paese vicino. Ricordo i volti delle donne che non credevano ai loro occhi. Anche loro presero i morti e gli diedero una degna sepoltura»
RENZO GALLI
Renzo Galli, classe 1924, ex deportato in Germania. Siamo andati ad incontrarlo nella sua casa in mezzo al verde, ai margini di un ampio frutteto, lavorato con estrema cura, in un angolo di pace, appena al di fuori dell’abitato di Cunardo. Una casa da sempre desiderata, un sogno a lungo accarezzato divenuto realtà. In un locale esposto ad oriente, la signora Maria Pia, la moglie, dedica tutte le sue attenzioni ai fiori e alle piante grasse che custodisce come preziosi cimeli. Renzo Galli, rientrato in Italia alla fine della guerra, dopo un periodo di due anni alle dipendenze del comune di Varese, percorse una brillante carriera presso il Banco Lariano, prima come cassiere, poi come responsabile del servizio titoli e borse. Quarantadue anni trascorsi tra Varese, Milano e Grandate. Ora ama sfogliare a ritroso le pagine della sua vita, i momenti lieti e gli anni più cruciali, funestati da una lunga prigionia. Una giovinezza stroncata sul nascere dalla cruda realtà della guerra incombente. Aveva, infatti, soltanto 19 anni quando il 19 agosto 1943 fu chiamato alle armi, per servire una patria che stava giorno dopo giorno perdendo la propria identità. Era stato assegnato alla caserma Passalacqua di Tortona, al 38° Fanteria, Divisione Ravenna, precedentemente decimata in Russia ed in Africa Settentrionale. Un tentativo estremo per riorganizzarla, con addestramenti quotidiani della truppa, per bruciare le tappe nella poco probabile prospettiva di un’ipotetica azione militare difensiva. A frenare i facili entusiasmi venne però il secco comunicato dell’8 settembre, nel quale si annunciava che il maresciallo Badoglio aveva firmato l’armistizio con gli alleati. Ora non rimaneva altro che attendere ordini superiori da ufficiali disorientati e frastornati dai messaggi contradditori piovuti da più parti. Ad infrangere ogni dubbio, la mattina del 9 settembre, i tedeschi circondarono la caserma con un imponente apparato di carri armati. Impossibile ogni reazione, in quanto la Divisione era del tutto sprovvista di armi. I nuovi venuti radunarono sul piazzale interno i militari, più di tre mila secondo calcoli attendibili, e senza indugio chiesero un’esplicita dichiarazione di collaborazionismo con l’esercito tedesco. Pochissimi però si lasciarono adescare dalle loro lusinghe. Dopo tre o quattro giorni, tutti vennero caricati su un convoglio di carri bestiame, per essere trasportati in Germania. Un viaggio da incubo che durò quattro o cinque giorni. Finalmente il convoglio approdò nei pressi di Meppen, una cittadina a circa 20 km dal confine con i Paesi Bassi. Un paesaggio surreale, un’immensa pianura, costellata di baracche, sorvegliate da severe torrette sulle quali emergevano gli elmetti delle sentinelle. Bastò uno sguardo per rendersi conto di essere piombati in una novella babele dove si udivano le lingue più disparate. I prigionieri più numerosi erano i Russi; nel campo c’erano anche le donne. Nel giro di pochi giorni venne effettuata la prima selezione. I prigionieri italiani vennero registrati e schedati in base alla loro professione. Intanto era nata la Repubblica Sociale Italiana con la pressante esigenza di ricostituire un esercito solido ed efficiente. Questa volta furono alcuni ufficiali, spalleggiati da due cappellani collaborazionisti, a sollecitare una risposta per un eventuale rientro in Italia. L’appello cadde però nel vuoto. Quei pochi che accettarono la proposta meditavano già in cuor loro una non improbabile diserzione. Il treno ripartì con destinazione Bonn, dove avvenne l’assegnazione definitiva ai vari campi di lavoro (arbeitskommandos). Renzo fu destinato alla fabbrica Dynamit di Troisdorf (Colonia). Un lavoro duro e sfibrante: carico e scarico di sacchi di carbone, dinamite, cemento e qualche rara volta di patate. Successivamente, soprattutto negli ultimi mesi, i prigionieri vennero adibiti ai lavori di sgombero delle macerie dopo i bombardamenti da parte degli alleati, divenuti sempre più frequenti. Mentre i tedeschi disponevano di rifugi antiaerei, i prigionieri dovevano accontentarsi di acquattarsi in buche relativamente profonde, col pericolo di essere investiti dalle schegge delle bombe. La vita nel campo era contrassegnata da un inflessibile rigore: sveglia alle 4/4,30. Chi osava indugiare sul pagliericcio veniva buttato fuori in malo modo a legnate. Dopo una breve permanenza ai servizi, al di fuori delle baracche, cominciava la conta. Meglio comunque non rimanere a letto, anche se indisposti. Un mattino, infatti, un prigioniero che non era stato in grado di alzarsi per recarsi al lavoro era stato prelevato e di lui non si era saputo più niente. Inutili erano state le ricerche da parte della famiglia alla fine del conflitto. Si suppone pertanto che fosse stato trasferito in un campo di sterminio, passato per il gas e incenerito in un forno crematorio. La colazione consisteva in una specie di the caldo, più simile ad una brodaglia indefinibile, con una fetta di pane nero. Poi i prigionieri venivano intruppati e condotti ai rispettivi posti di lavoro, sempre scortati dai militari. In fabbrica si lavorava per dodici ore consecutive, senza alcuna pausa, dalle sei del mattino fino alle sei di sera. Stremati si tornava nel lager dove veniva servita, si fa per dire, una zuppa di verdure, nella quale galleggiavano molte bucce di patate, insieme ad un’altra fetta di pane nero, in qualche circostanza anche due. Rare erano le domeniche di riposo, solo negli ultimi tempi la tensione fu leggermente allentata. Terminata la cena ci si coricava ed a causa della stanchezza ci si addormentava in men che non si dica. Le brande erano letti a castello di tre piani, pagliericci con una coperta per ripararsi dal freddo. Questa la routine quotidiana. Periodicamente i prigionieri venivano obbligati a far bollire maglie, mutande, calze, tranne la giacca. Si aspettava che i propri indumenti asciugassero e talvolta, siccome non c’era cambio, si indossavano ancora umidi. Piattole e pidocchi erano compagni inseparabili dai quali ci si poteva liberare solo durante le ricorrenti disinfezioni che consistevano in una specie di doccia con un liquido disinfestante fatto scorrere sulla nuda pelle. Nel lager si viveva in una sorta di limbo dove le notizie filtravano solo attraverso il passa parola. Si seppe però dello sbarco in Normandia, soprattutto dai francesi che, come prigionieri di guerra, erano spesso visitati dagli ispettori della Croce Rossa. Non così gli italiani definiti IMI (italiani militari internati). Non erano, infatti, considerati prigionieri di guerra, cui dovevano essere applicate le regole della Convenzione di Ginevra, ma semplici internati che non godevano nemmeno dell’assistenza della Croce Rossa. Così gli 800.000 soldati italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre furono abbandonati a se stessi.
Nel marzo del 1945 in Germania, come in altri paesi, la situazione precipitò, il caos era generalizzato. Ne approfittò immediatamente anche Renzo che insieme a tre compagni di prigionia si avventurò in un viaggio del quale non si intravvedeva l’esito. L’intenzione ovviamente era quella di un rapido ritorno in Italia, ma bisognava evitare brutte sorprese. Si viaggiava pertanto di notte e a piedi. Qualche contadino, mosso a pietà per quei disperati, forniva loro un po’ di cibo, patate, pane nero che potesse consentire loro di sopravvivere. Presso tutti i contadini tedeschi peraltro lavoravano molti prigionieri che, accomunati da un identico destino, solidarizzavano con i fuggiaschi. Dopo una decina di giorni, il drappello raggiunse Francoforte. Qui una donna, probabilmente una vigilessa che aveva il marito in Italia, anziché consegnarli alla Polizia locale, li accompagnò al consolato italiano della RSI. Da qui furono inviati all’Ufficio del lavoro della città. Occorre dire che il padre di Renzo, Pietro, muratore, lavorava da anni in Francia, come emigrante stagionale, nella regione della Saar, divenuta territorio tedesco in seguito all’invasione nazista. Dopo l’armistizio però gli era stata preclusa la possibilità di rientrare in Italia. Era stato anche lui trasferito in Baviera e precisamente a Ruhpolding.
Venutone a conoscenza, Renzo ed i compagni dichiararono di voler continuare a lavorare per la Germania. Ottennero quindi un lasciapassare e un documento che consentivano loro di viaggiare in treno. Finalmente Renzo poté ricongiungersi con il padre. I tre amici però preferirono proseguire la loro marcia verso l’Italia. Renzo li ricorda ancora con immutato affetto: Alessio Speziali, originario della Valtellina, Bruno Saccavilli di Ceggia, vicino a Venezia, Cesare De Cesaris di Longarone, morto probabilmente nel disastro del Vajont nel 1963.
Anche gli altri due purtroppo sono morti, dice con un velo di tristezza negli occhi, benché il loro ricordo non si sia per nulla affievolito. Il padre Pietro, preoccupato per lo stato di salute del figlio Renzo, ridotto a pelle e ossa, chiese ad una suora di sua conoscenza di ricoverarlo in ospedale. Gli esami clinici fortunatamente non rilevarono alcuna patologia particolare: non rimaneva altro che ricorrere ad una corroborante nutrizione intensiva. Con il documento rilasciato dall’Ufficio del lavoro, Renzo rimase a Ruhpolding fino al pomeriggio del 4 maggio 1945, quando giunsero gli americani liberatori. Dopo una sommaria ricognizione, i prigionieri vennero trasportati nel campo di sterminio di Mauthausen e impiegati nel penoso lavoro del recupero delle salme e della riesumazione dei cadaveri sepolti in una fossa comune. Nel campo, rapidamente abbandonato dai nazisti, c’erano però ancora prigionieri in precarie condizioni di salute. Renzo ricorda un uomo, ridotto ad uno scheletro vivente, spirato nel momento in cui venne sollevato da terra per essere soccorso. Terminata questa triste missione, tutti gli italiani vennero riuniti in un campo e a gruppi furono fatti rientrare in patria. A Innsbruck c’erano i camion della Pontificia Opera di Assistenza ad accoglierli. Renzo era piuttosto malridotto: pesava circa 45 Kg ed in seguito cominciò ad avvertire forti dolori addominali che lo costrinsero a sottoporsi ad un intervento chirurgico di ulcera duodenale. La sua salute ne risentì per molto tempo, anche se oggi la sua longevità e la sua ottima performance psichica sembrano volerlo compensare degli anni più belli della sua vita, consumati in un orribile lager per l’assurda follia di un regime criminale e liberticida.(dal libro Voci dalla 2° Guerra Mondiale a cura dell’ANPI di Luino)
Un sentito ringraziamento a Emilio Rossi, presidente Anpi Luino
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