Lucarelli in Bocconi: il premio “Dante d’Oro” al signore del giallo
Il “Dante d’Oro” è il primo premio letterario ad essere conferito da parte di un’associazione studentesca a personalità illustri del panorama culturale nazionale e internazionale
“Esistono molti pregiudizi sul romanzo giallo, come quello che i gialli si leggono in treno per staccare, distrarsi, fare passare il tempo. Invece quello che faccio io è farvi saltare la fermata del treno”.
Parola di Carlo Lucarelli, il poliedrico signore del giallo all’italiana. Personaggio unico e variegato. Giornalista ma anche scrittore. Regista ma pure sceneggiatore e conduttore televisivo. “Un personaggio affascinante e dalle mille sfaccettature” così lo definisce Antonella Carù, direttore della Scuola superiore universitaria Bocconi di Milano, onorata di accogliere quest’ospite d’eccezione in uno dei salotti letterari più elitari d’Italia.
Il salotto “Bocconi d’inchiostro” che, nei giorni scorsi, ha reso omaggio a Lucarelli con “Il Dante d’Oro”, il primo premio letterario ad essere conferito da parte di un’associazione studentesca, a personalità illustri del panorama culturale nazionale e internazionale.
Un’associazione ben rodata che ha saputo coinvolgere e interessare il folto pubblico di giovani e adulti accorsi in Bocconi per assistere all’intervista del rivoluzionario scrittore noir da loro capitanata.
Se i salotti letterari della Milano di ieri erano impreziositi da Pietro Verri e Alessandro Manzoni, a fare grandi quelli di oggi – Bocconi d’Inchiostro in primis – sono stati talenti del peso di Mogol, Gianna Nannini, Antonello Venditti, Enrico Ruggeri. O di maestri più attempati del calibro di Andrea Camilleri, scrittore e regista ultranovantenne siciliano che, con la sua ultima creatura “Il Commissario Montalbano”, sta letteralmente sbancando il botteghino. Come Lucarelli, anche lui è stato insignito del prodigioso titolo targato Bocconi.
Ciò nonostante, il patto d’acciaio Camilleri-Lucarelli risale al 2010, a quando l’affiatato duo debuttò con il romanzo a quattro mani intitolato “Acqua in bocca”. Una sinfonia dai sapori rocamboleschi il cui scopo constava nel lasciare i lettori con il fiato sospeso fino alla fine: “D’altronde a che cosa servono i gialli se non a tenere svegli per tre notti consecutive i lettori?” ironizza Lucarelli alludendo ai tanti pregiudizi che ruotano attorno a questo angariato genere letterario. Per la serie, giallisti si nasce? Sembrerebbe proprio di sì: “I narratori sono quelle persone che quando tornano da scuola raccontano tutto quello che la maestra ha fatto, i giallisti, invece, sono quei bimbi che quando tornano a casa dicono: non immaginerete mai che cosa ha fatto la maestra oggi”. Ebbene, questi piccoli grandi fanciulli, proprio come Lucarelli, sono capaci di creare trepidazione.
Una suspense che l’autore riesce a produrre anche e soprattutto grazie al fatto che si rifiuta di rimanere segregato nella sua utopica e confortevole torre d’avorio in attesa di essere folgorato da pseudo documentazioni che attestino pseudo verità. Per lui, infatti, non esistono pseudo verità ma solo verità. Perché Lucarelli è il tipico bolognese che, le mani in pasta, preferisce mettercele in prima persona quando si tratta di redimere intrighi e misfatti. Solo così riuscirà a partorire “personaggi ossessionati e contraddittori”. Gli unici capaci di tenere alto il gonfalone delle sue imprevedibili e accattivanti narrazioni: “Potrà sembrare strano ma io non so mai come andrà a finire il mio romanzo o chi sarà il colpevole” sorride l’autore dalla folta barba sale e pepe dalla quale trapela quello sguardo navigato di chi sa bene che il mondo gira su rotelle ben precise. In fin dei conti: “Noi scrittori non anticipiamo mai niente della realtà, ci limitiamo solo a raccontarla. L’unica cosa che anticipiamo è la consapevolezza della realtà”.
Una riflessione, quest’ultima che Lucarelli maturò a Bologna negli anni ’80, quando si accorse di vivere in un città noir di gran lunga peggiore rispetto alle cittadelle dei romanzi che leggeva: “Ci sono stati anni in cui Bologna era peggio di Los Angeles. Ventidue morti. Tre carabinieri fucilati per la strada nel quartiere Pilastro. Campi Rom in cui si sparava con fucili d’assalto…”.
Tuttavia il passaggio da giornalista a scrittore avvenne proprio in quegli anni, quando si accorse che le settanta righe del giornale per il quale scriveva non sarebbero più bastate per raccontare una metropoli problematica come Bologna: “Mi sarei beccato una querela”. Tant’è vero che il suo primo romanzo, intitolato “Carta Bianca”, nacque proprio in seno a questa rinnovata consapevolezza che la frase di un giallista svizzero ben sintetizza: “Clauser diceva che il giallo è un ottimo mezzo per dire cose sensate. Vuol dire che la bella macchina narrativa che noi scrittori abbiamo a disposizione, può essere fine a se stessa, quindi molto commerciale, oppure può servire a dire tutto il resto”. Ed è proprio quel resto che secondo Lucarelli ha fatto la fortuna del romanzo giallo (e un po’ anche la sua): “Non è forse il giallo a raccontare la metà oscura delle cose che accadono in un Paese come il nostro? Se ci fate caso, dal calcio al cibo a quel che vi pare, tutto è intriso di mistero e noi scrittori siamo deputatati a raccontarla questa verità, tra l’altro in un momento storico animato da molta paura”. Uno sgomento che probabilmente il thriller (come da lui inteso) è in grado di esorcizzare.
Tra l’altro, un mestiere quello dello scrittore che Lucarelli non perde mai occasione di nobilitare: “Noi artisti siamo soliti dire che fare il nostro lavoro è sempre meglio che lavorare ma nonostante ciò rimane un’attività pur sempre faticosa proprio perché rimandabile”. Una fatica cui il signore del giallo non vuole proprio rinunciare, fosse solo per la sensazione di estasi eroica che avverte ogni qual volta scopre di avere dato vita e senso compiuto alla storia che stava raccontando: “E’ la stessa estasi che prova il lettore mentre legge e capisce quanto sia bello stare dentro quell’avventura”. Anche se una volta arrivati a fine corsa, quella sensazione di estasi pura si trasforma in dispiacere: “Perché in fondo lì dentro ci stavi bene”.
Sara Cariglia
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