Non c’è cultura digitale, sono gli incentivi che creano l’industria 4.0

L'azienda di servizi IT Guttadauro Network srl negli ultimi anni è cresciuta in modo costante. Questa crescita, secondo l'ad Gaetano Guttadauro, non è diretta conseguenza degli investimenti fatti dalle imprese per il passaggio al digitale

Economia generiche

«Noi cresciamo grazie al retail, non certo grazie al manifatturiero». L’affermazione di Gaetano Guttadauro, amministratore delegato di Guttadauro Network srl azienda informatica di Cassano Magnago, è spiazzante perché arriva in un momento in cui tutti gli indicatori relativi all’industria lombarda hanno il segno positivo. In quasi tutti i settori crescono l’export, l’occupazione, i ricavi e soprattutto gli investimenti. Un bel segno di fiducia delle imprese nel sistema, nonostante la guerra commerciale in atto tra Usa e Cina.

Guttadauro, negli ultimi tre anni, voi siete cresciuti in modo costante. È difficile pensare che gli investimenti stimolati da industry 4.0 non abbiano portato benefici anche a chi come voi produce servizi per le imprese.
«Per cultura, passione e interesse noi siamo più vocati al retail perché presenta aspetti innovativi molto stimolanti soprattutto in questa fase di passaggio al digitale. Per noi il manifatturiero rappresenta sempre un buon 60 per cento del fatturato, ma è nel restante 40%, cioè nel retail, che noi cresciamo perché è lì che si è innovato di più. Ecco perché la nostra crescita non è legata agli investimenti 4.0».

Quindi, secondo lei, la spinta ad innovare è solo un fatto culturale.
«Nel manifatturiero in genere si fa questo ragionamento: ci sono le risorse economiche, si può disporre di ammortamenti anticipati e quindi compro il macchinario. Il percorso è legato all’incentivo non a una cultura dell’innovazione che invece richiede una visione più profonda che tenga conto sia dell’integrazione della nuova tecnologia nell’intero processo produttivo sia della formazione dei collaboratori. Tutti che parlano di Mes e di capacità produttiva finita ma la tecnologia di per se stessa non serve a nulla. Ciò che conta sono le persone in grado di fare queste cose e possono farlo se c’è una cultura difusa che va in quella direzione».

Il capitale umano è ancora fondamentale nell’economia 4.0?
«È così fondamentale che con alcuni clienti del manifatturiero abbiamo avuto problemi perché ci hanno portato via dei collaboratori preziosi, formati da noi. Il vero investimento strategico sta nelle persone e nella loro formazione, la tecnologia è solo un abilitatore. Ai miei collaboratori propongo un master all’anno o percorsi di formazione interna e, quando assumiamo, prediligiamo nuovi laureati».

Nella sua azienda c’è la seconda generazione. Crede che i giovani colmeranno il gap culturale di cui lei parla?
«Oggi il cambiamento generazionale nella sala di comando ancora non c’è. Per verificarlo è sufficiente andare alle assemblee di qualsiasi associazione di categoria e vedere qual è l’età media. In genere le assicuro che è molto alta. Quindi per rispondere alla sua domanda, credo che in questo momento ci sia poco cambiamento sui giovani che invece sono quelli che portano altre visioni. Sono un po’ più rigidi e assoluti, ma fondamentali perché sono veloci, profondi e governano istintivamente la tecnologia. Bisogna dare loro fiducia».

Voi vendete servizi IT, in che cosa vi differenziate dai vostri competitor?
«Noi non vendiamo nulla perché è il cliente che compra. Il nostro compito è presidiare il cliente con 60 tecnici e 8 commerciali . Questa è una differenza fondamentale perché fa leva sulla consapevolezza di chi sceglie di acquistare e su una collaborazione che è indispensabile per chi fa consulenza. Noi facciamo progetti su misura, non siamo semplici fornitori, ma veri e propri partner che aiutano le aziende a sviluppare processi al loro interno. Per esempio, il cambio di un gestionale avviene almeno in dodici mesi e i risultati si vedono il secondo anno. Ecco perché è indispensabile concepire quel rapporto come una partnership».

Avete manager in azienda?
«Tutte le aziende comprese le piccole sono destinate ad avere un manager, ma se è giovane dopo un percorso di formazione tenderà ad andarsene di fronte ad offerte economiche più sostanziose soprattutto se arrivano dalle multinazionali. Mille euro in più potrebbero evitare questa perdita, ma poi come spiego agli altri 64 collaboratori, soprattutto a quelli che lavorano da molto tempo in azienda, che uno appena entrato guadagna il doppio del loro stipendio. È con la creazione di un team dotato di forte identità e senso di appartenenza che si puo’ convincere un giovane manager a restare in azienda».

Si sceglie di essere piccoli imprenditori o è una condizione che si subisce? 
«È una scelta. Dal mio punto di vista sono fortunato perché io seguo la parte ludica del lavoro, vado dai clienti e sviluppo progetti. Mia moglie invece segue tutta la parte finanziaria e amministrativa. L’unica crisi che abbiamo subito è stata il fallimento di un cliente. Noi però siamo ancora qui».

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Pubblicato il 27 Luglio 2018
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