L’estate del 1928, quando a Saronno costruirono il treno del futuro
La storia di un geniale ingegnere ungherese, di un industriale ambizioso e della fabbrica Cemsa, che idearono e realizzarono una locomotiva che anticipava di ottant'anni il futuro. Con troppo anticipo: da sogno si trasformò in un incubo, che si vede ancora oggi
Nell’estate del 1928, a Saronno, il sogno della più innovativa locomotiva elettrica al mondo sembrava quasi a portata di mano. Era un sogno fatto di tonnellate di acciaio e rame (foto di apertura: wikipedia). Un sogno che solo un anno dopo si sarebbe trasformato in un incubo, portando alla chiusura la Cemsa, la più grande e promettente fabbrica della città.
Fu un’estate di preoccupate speranze, per chi – nella cittadina vicino a Milano – aveva seguito per un decennio il sogno nato dall’estro visionario di un ingegnere ungherese, Kálmán Kandó. Un genio che nei tre decenni precedenti aveva guidato la nascita delle locomotive elettriche in Italia. Si chiamavano “trifasi”, quelle spigolose locomotive, perché la corrente era generate da tre fasi diverse: era un sistema complesso, che richiedeva – tra l’altro – non uno ma due fili della corrente sospesi sopra i binari. L’Italia si era scoperta man mano un Paese all’avanguardia, avendo iniziato a sperimentare l’elettricità fin dalla fine dell’Ottocento. Perché i treni allora andavano a carbone e l’Italia aveva ben poco carbone, solo quello della Sardegna e un po’ d’altro in Istria e in Toscana. Mentre i fiumi e i torrenti alpini e appenninici potevano trasformarsi – grazie a bacini idrici e dighe – in energia elettrica, il “carbon bianco”, che aveva anche il vantaggio di non inquinare.
Una cartolina degli anni Dieci: la locomotiva elettrica e lo slogan “saluti a Grande Velocità” come simbolo del progresso (foto: Stagniweb)
La prima ferrovia a usare l’elettricità in Italia fu (insieme alla Milano-Varese) quella che da Lecco saliva in Valtellina, nel 1902. Dietro quell’innovazione c’era un ingegnere austro-ungarico, appunto il trentenne Kandó. Che nel giro di pochi anni divenne il grande padre del sistema di ferrovie elettriche trifasi: i nuovi treni che andavano senza carbone iniziarono a circolare in Piemonte e verso i porti di Genova e Savona, poi su tutta la costa ligure, meta del turismo internazionale, di inglesi e russi. La cavalcata verso la modernità sembrò interrompersi con la Prima Guerra Mondiale: costretto alla fuga in quanto suddito dell’Imperatore, quindi nemico, Kandó tornò in Italia solo dopo il 1918, in affari con un industriale ambizioso, Nicola Romeo, il celebre fondatore dell’Alfa Romeo che a Saronno aveva una rilevato una già ben avviata officina. Fu qui che l’ingegnere ungherese costruì vari tipi di locomotive elettriche trifasi.
Le locomotive elettriche trifasi al museo ferroviario nazionale di Pietrarsa, a Napoli: la seconda e la quarta, quelle dipinte in nero, sono state costruite a Saronno (foto: Stagniweb)
Nel 1925 Romeo fondò, con il Credito Italiano, la Cemsa, “Costruzioni Elettro Meccaniche di Saronno“, destinata appunto a diventare tra le più grandi fabbriche della città e tra le maggiori di Lombardia, nel settore metalmeccanico. A suon di lettere e disegni e più rare visite di persona a Saronno, nel frattempo l’ingegner Kandó aveva iniziato a dare forma al suo sogno: costruire una locomotiva in grado di funzionare sia sulle linee ferroviarie elettriche esistenti (quelle con il complesso sistema trifase) che sotto un nuovo sistema, la corrente alternata monofase, che richiedeva impianti più semplici e che allora stava mettendo le prime radici all’estero. Proprio nella “sua” Ungheria l’ingegnere di Budapest aveva costruito nel 1923 la sua prima locomotiva con il nuovo sistema di corrente alternata monofase (lo stesso che oggi si usa in molti Stati e anche per le linee ad Alta Velocità italiane) e già sperava di portare questa tecnologia, più moderna, anche in Italia.
Per progettare e costruire la locomotiva “universale”, Kandó e la Cemsa impiegarono quasi un decennio. Era un progetto complesso, una locomotiva che pesava 94 tonnellate, gigantesca per gli standard dei tempi, che aveva il suo cuore in un apparato meccanico unico nel suo genere, che serviva a trasformare la corrente monofase in corrente per i motori trifasi e a regolare la potenza. Un macchinario rivoluzionario, per cui non esisteva neppure una parola in grado di definirlo: la chiamarono “convertitrice”, un mastodonte che da solo pesava decine di tonnellate e che faceva – 90 anni fa! – quel che l’elettronica avrebbe reso possibile solo alla fine del Novecento, in sostanza ai giorni nostri. Nel luglio del 1928 si arrivò finalmente a mettere sotto tensione il primo esemplare, che tra 1928 e 1929 iniziò le prime prove in Valtellina e sulla linea che da Roma portava fino alla costa adriatica, attraverso l’impervio Appennino.
I tempi lunghissimi di progettazione e qualche difficoltà al momento delle prove spinsero però le FS a rifiutare le locomotive costruite a Saronno (ne erano previste dieci, inizialmente): fu un colpo gravissimo per la Cemsa, che già aveva qualche difficoltà finanziaria e che nel progetto di Kandó aveva immobilizzato risorse economiche da anni. L’azienda saronnese riutilizzò poi alcune parti per costruire nuove locomotive per la Valtellina, nel 1932, ma alla fine – in enormi difficoltà – fu salvata dall’IRI e mantenuta in vita solo fino a dopo la seconda guerra mondiale. La fabbrica che aveva visto il futuro si trasformò così in uno scheletro vuoto, a lungo gigantesca area dismessa dentro la città di Saronno, quasi a ricordare quel glorioso fallimento che oggi nessuno ricorda.
La gigantesca area della Cemsa, dietro la stazione di Saronno: la fabbrica chiuse definitivamente nel 1948. Foto Cemsa, dalle collezioni del Museo delle Industrie e del Lavoro di SaronnoSecondo l’ingegnere e storico Erminio Mascherpa – che ha studiato centinaia di carte d’archivio tra la Cemsa, le Fs, l’Ungheria – il progetto della locomotiva denominata dalle Fs “E471” fu vittima anche della antipatia tra Kálmán Kandó e Giuseppe Bianchi, il potente direttore dell’Ufficio FS di Firenze che prendeva le decisioni tecniche sullo sviluppo dei treni. Bianchi (che per ironia della sorte finì poi la sua carriera a Saronno, alle Ferrovie Nord, dopo la guerra) decise di puntare tutto sul sistema della corrente continua a 3mila volt, che man mano sostituì in Italia il trifase, fino alla scomparsa delle ultime linee attrezzate con questo sistema, tra Liguria e Piemonte, negli anni Settanta.
Vittima della sua complessità o delle scelte politiche fatte a Firenze (e in parte influenzate dal Regime fascista), la locomotiva E471 rimase un progetto mai realizzato. “Sogno grande, temerario e infranto, di una locomotiva così rivoluzionaria e di un sistema di trazione così moderno da troppo precorrere i tempi“, come conclude l’ingegnere e giornalista Erminio Mascherpa nel suo libro dedicato alla vicenda. La E471 avrebbe potuto anticipare di settant’anni il futuro dei treni elettrici, ma il futuro doveva attendere. Il moderno sistema di corrente elettrica monofase, che alimenta motori in trifase, è entrato in funzione in Italia quasi 80 anni dopo: con la linea Roma-Napoli ad Alta Velocità, nel 2005.
L’articolo riprende – in forma evidentemente molto semplificata – la lunga e appassionata ricerca di Erminio Mascherpa (1943-2005), confluita nel volume “E471 locomotive di sogno”, edito da Nicolodi, Rovereto, 2005
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