L’odio in rete e le macerie culturali
Intervista a Claudio Del Frate, caposervizio del Corriere. "Spesso le persone sui social non leggono e il mio lavoro non può diventare quello di smentire tutta la porcheria che si trova in rete"
Una vita in mezzo alle notizie. Claudio Del Frate, classe 1961, ha iniziato a lavorare alla Prealpina che era un ragazzino restando 20 anni in via Tamagno. Poi “la voglia di cambiare, rinnovare il mio modo di lavorare e trovare nuovi stimoli” e da lì nel Duemila il grande salto. Da redattore con un posto fisso e sicuro è passato part time a Varesenews e al Corriere della sera come corrispondente da Varese. Sei anni con la doppia casacca fino al 2006 quando è arrivata l’assunzione da via Solferino.
Claudio è cresciuto con il mito del giornalista dalle scarpe consumate sui marciapiedi cercando fatti da raccontare. Una scuola che metteva al centro di tutto la notizia. Da qui si capisce meglio il suo fastidio per tante critiche che vengono rivolte a chi fa la nostra professione, ma soprattutto la sofferenza nel vedere la diffusione delle fake news e il ruolo svolto dai social media.
In un momento come quello che stiamo vivendo, dove non passa giorno che non si parli di trolls, hacker, haters, odio in rete e tanto altro, siamo andati a fare una chiacchierata con lui che da un paio d’anni è caposervizio al web per Il corriere della sera.
Quando hai aperto la prima email e i primi account social?
«La prima email l’ho aperta alla fine degli anni Novanta. Facebook invece ha una storia professionale. Dovevo fare un pezzo sulla bocciatura del Trota e non riuscivo a contattarlo. Allora una mia collega mi suggerì di iscrivermi. Lo feci e la prima amicizia la chiesi proprio al figlio di Bossi. Non mi rispose mai, ma in compenso iniziarono a cercarmi amici, compagni di scuola e così iniziai ad usarlo».
Quando hai iniziato a lavorare con il digitale?
«Nel 2000 con Varesenews. Avevo voglia di cambiare e in quel periodo avviai una serie di collaborazioni, oltre che con voi e il Corriere con la Radio Svizzera. Facevo il cronista, ma capivo che era necessario imparare un modo nuovo di lavorare, con linguaggi nuovi che richiedevano maggiore sintesi, immediatezza e precisione. Una volta assunto al Corriere il nuovo salto fu intorno al 2010 quando iniziai a lavorare anche per il sito. Due anni dopo la prima esperienza con i live blog in occasione della “notte delle scope” leghiste a Bergamo. Da circa due anni sono diventato capo servizio di un team che lavora alle versioni digitali del Corriere».
La dicotomia carta/web è superata da tempo, ma che fine farà la carta che sembra sempre più in crisi?
«Partiamo da un dato. Ancora oggi il 70% dei ricavi dei giornali arrivano dalla carta e il digitale non è ancora sufficientemente remunerativo. Nessuno, salvo poche eccezioni, riesce a far quadrare i conti. Finché la situazione resta questa la carta avrà un ruolo sempre centrale. Via la carta comunque avremo una implosione del sistema informativo, almeno così come lo abbiamo conosciuto».
Un’accusa che si fa ai grandi giornali italiani è usare sistemi acchiappa clic. Uno spazio dei siti veniva chiamata la “colonnina morbosa”. Che ne pensi?
«Con la monnezza ci paghiamo l’inviato a Mousul. I ricavi dal sito arrivano per lo più dalle notizie pop e non ne possiamo fare a meno. Anche quando nascondiamo pezzi su Belen o la Ferragni questi sono tra i più letti. Il lettore è diventato centrale e così le redazioni vengono troppo influenzate dall’esigenza del traffico. Poi va considerato che in Italia, a differenza di altri paesi, abbiamo una tradizione che mescola “alto e basso”, c’è un mix tra serio e pop. Il digitale ha proseguito nel solco di questa storia interpretandola a pieno».
A proposito di relazione con i lettori, come sta andando?
«All’inizio dell’era digitale abbiamo vissuto l’accorciarsi dello spazio tra giornalista e lettore come una grande opportunità. Lo scambio aveva tanti aspetti positivi. Ci permetteva di conoscere di più, di avere maggiori stimoli. Poi, da un certo momento in avanti, qualcosa si è inceppato ed è esploso anche per dimensioni, un po’ come fosse un liberi tutti. Oggi vediamo tutti cosa sta succedendo. Siamo passati dai maleducati ai disturbatori, ai provocatori fino agli haters. La maggioranza non leggono nemmeno gli articoli e si esprimono per pregiudizi e insulti producendo una melma maleodorante che inquina e fa perdere tanto tempo. Faccio un esempio concreto. Abbiamo ripreso la notizia della scomparsa della mamma malata di Selvaggia Lucarelli, per fortuna poi ritrovata. Abbiamo dovuto spegnere i commenti e non postarla su Facebook per la quantità di odio che avrebbe scatenato. Non è possibile. Ormai questo rapporto con i lettori non aggiunge niente all’informazione».
Da qui alle fake news il passo è breve. Che ne pensi?
«Il fenomeno viene da più lontano. Non è recentissimo. Quattro anni fa ho iniziato a veder circolare notizie fasulle, alcune venivano riprese dai giornali e cambiate. La prima spiegazione che ci davamo era di tipo economico. Pensavamo che lo facessero per far traffico e da lì soldi. Ci accorgemmo presto che non era solo così perché da un sentimento generale il fenomeno si è spostato via via alla politica. Oggi esiste una regia tra troll russi, Cambridge Analytica e altro? Non lo so perché non sono così esperto, ma rifletto su altro. Se qualcuno pensa ancora che il successo di Salvini, che ha numeri più alti di repubblica e il Corriere messi insieme, sia un fenomeno spontaneo, sbaglia di grosso. Dietro a lui sul digitale si muove uno staff che gestisce una narrazione distorta della realtà. Tutto questo costa tanto e fa a pugni con un partito che dice di non avere soldi e che ha fatto sparire 49 milioni di euro. Chi paga? Da dove arrivano i soldi?»
Corriamo davvero dei rischi sociali?
«Oggi siamo di fronte a qualcosa di più di un rischio. L’impatto dei giornali sull’opinione pubblica è scemato. Posso scrivere che i reati in Italia sono scesi e che non abbiamo nessun rischio di invasione, ma non vengo creduto perché ci sono migliaia di post costruiti che raccontano un’altra cosa. C’è una asimmetria tra noi e il mondo delle fake news. I giornali devono assolvere ad obblighi precisi, i secondi no».
Che cosa si può fare?
«Fare bene il proprio lavoro. Credo che alla lunga questo premi perché prima o poi si dovrà fare i conti con la realtà. Oggi però non mi spaventa l’impatto delle fake news sulla politica, ma le macerie culturali che stanno producendo. L’odio che scatenano i social è preoccupante. È la nuova forma di terrorismo dove gli insulti diventano devastanti. Dobbiamo stare molto attenti perché la storia ci insegna che dalla dimensione verbale si può passare a quella fisica. In Italia l’abbiamo vissuta recentemente con gli anni di piombo. Oggi si sta alimentando un clima molto pericoloso e basterebbe pensare che l’unico episodio di terrorismo nel nostro paese negli ultimi dieci anni è quello di Macerata, dove uno è andato a sparare ai neri in giro per la città. Un fatto gravissimo figlio della xenofobia alimentata anche sul web. Questo è figlio di una cultura retrograda a cui si aggiunge un maschilismo schifoso. Non a caso le vittime principali sono donne come la Boldrini, la Boschi e la Fornero che sul web non possono più intervenire».
E con i social che si fa?
«Non riesco a staccare perché sono il termometro della realtà e devo tenerne conto. Oggi però sono anche una patologia, perché spesso le persone non leggono e in più il mio lavoro non può diventare quello di smentire tutta la porcheria che si trova in rete».
In tutto questo non credi che ci sia qualche responsabilità anche nel giornalismo?
«Non è preponderante. Quando il sistema è esploso, il flusso delle informazioni è sfuggito al giornalismo tradizionale. Certo, poi c’è chi ha ammiccato, vedi una certa tv, però nel nostro lavoro ognuno si prende le proprie responsabilità. Dire che tutti si è colpevoli equivale a dire che nessuno è colpevole e non va bene. Le accuse generiche non servono. Io non rispondo alle accuse rivolte ad altri e lavoro per un grande giornale che nel proprio racconto si basa sui fatti. Non sulle fake news. Abbiamo una solida tradizione e a quella ci rifacciamo».
Tu nasci in un giornale locale, come vedi oggi il futuro di questo settore?
«In questi anni i giornali che hanno avuto meno erosione di lettori sono proprio quelli locali. Questo ha permesso di avere meno distanza tra chi legge e la tradizione del passato. C’è stato meno cambiamento e il processo vero la digitalizzazione è più lento, ma il vento non lo fermi con le mani e anche i giornali locali devono fare i conti con questa nuova era e soprattutto con i social».
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