Africa, i molti migranti che partono perché sono senz’acqua

Il contributo dell'agronomo Valerio Montonati che affronta un problema complesso e di scottante attualità

Avarie

Più avvezzo a questioni locali e territoriali, questa volta Valerio Montonati, agronomo, interviene oggi su una tematica di portata internazionale, ma proprio per questo di grande e complessa attualità.
Nello scritto si parla di migrazioni, e di una delle sue cause – per quanti partono dall’Africa – che combacia con lo sconvolgimento delle risorse idriche avvenuto in alcune regioni attraversate da grandi fiumi.
Uno dei tanti modi per comprendere le cause di un fenomeno troppo spesso commentato in maniera superficiale e senza le corrette argomentazioni.
(ac)

Da anni, ormai, assistiamo impotenti al drammatico fenomeno migratorio che vede centinaia di migliaia di persone tentare, come in una sortita di guerra, di raggiungere l’Europa sperando di trovare condizioni di vita migliori rispetto ai
loro territori natali.
Il nostro paese è particolarmente coinvolto da questo incessante esodo umano trovandosi proprio frontalmente alle coste libiche dove si perpetrano azioni bestiali di ogni tipo su esseri umani per lo più fuggiaschi da paesi belligeranti, o in
condizioni di guerriglia / guerra civile oppure da vasti territori desertificati ove non sono più in grado di sostenersi con produzioni agricole di sussistenza ancorché ricavate su storici modelli agricoli estensivi.

In questo articolo desidero approfondire la tematica della “Fuga ambientale” circoscritta al continente africano tralasciando la pur sostenuta schiera dei rifugiati di guerra e dei perseguitati politici ma richiamando, comunque, l’attenzione, almeno per quelle popolazioni che fuggono dagli orrori bellici, come, più di recente, il popolo siriano, sulle responsabilità di quegli stati che, seppur con finalità teoricamente “Nobili”, hanno, di fatto, causato la distruzione di quel paese che, nonostante l’evidente condizione di sottomissione ad uno storico regime dittatoriale, aveva tutte le condizioni per mantenere la propria popolazione in condizioni di vita dignitosa e che, pertanto, dovrebbero farsi direttamente carico
di questa diaspora.

Da agronomo ho, dunque, cominciato ad indagare su quali territori del continente africano fossero coinvolti in questi spostamenti biblici, quali condizioni ambientali siano alla base di questa migrazione di massa, a cercare testimonianze e documenti di colleghi, giornalisti, volontari che lavorano in progetti di sviluppo onde poter ragionare su possibili soluzioni alternative a questa condizione sempre più insostenibile (e non tanto per la reale capacità dell’Europa di poter accogliere, rispettandone appieno la dignità di persone, qualche milione di africani, ma, piuttosto, per l’incredulità che gli sconfinati spazi a sud del Sahara non riescano più a garantire condizioni di vita sostenibili a quelle genti).

Ho, comunque, dovuto superare qualche dubbio e, forse, un poco di pregiudizio in merito alla capacità / volontà di superare le difficoltà che “Madre natura” talvolta ci impone, da parte di quelle popolazioni ma solo in base a racconti di terzi, alla bibliografia ed alla documentaristica non avendo mai messo piede sul suolo d’Africa facendomene un’idea, quindi, con tutta la prudenza del caso : racconti di amici varesini impegnati nel Mali lungo la famosa falesia di Bandiagara dove gli indigeni non hanno mai immaginato di formare semplici dighe in pietra per raccogliere le acque nella stagione delle piogge e impiegarle in seguito o leggendo del “Sistema Vallerani” (ideato da Venanzio Vallerani, un collega agronomo scomparso nel 2011) che permetterebbe, con uno speciale aratro, la semina diretta, in ambienti semi aridi, di piante autoctone la cui germinazione ed il successivo affrancamento (con formazione di aree boscate capaci di influenzare il micro – clima locale ed anche il potenziale agricolo) sono consentiti dall’acqua raccolta nei micro – bacini scavati da questo attrezzo che forma un ampio solco a mezza luna capace di immagazzinare acqua in occasione delle rare piogge, per poi rintracciare foto di trattori ed aratri messi a disposizione gratuitamente da progetti di cooperazione e poi abbandonati in quelle zone rurali per mancanza della minima manutenzione; per non parlare, infine, di filmati e documentari in cui si vedono solo e solo donne a portare acqua ed altri materiali in bilico sulle loro teste o impegnate nel lavoro domestico come in quello rurale con la misteriosa, quanto surreale, assenza degli uomini …; saranno certamente coincidenze o mancanza di una visione realistica ricavata sul campo ma tant’è.

Tornando sull’argomento indicato: ho cominciato a fare qualche ricerca su internet.
In breve ho trovato due documenti: un articolo (Fred Pearce : “Come i grandi progetti idrici hanno creato la crisi dei migranti in Africa” traduzione del titolo originale del 20 ottobre 2017 in: ” Yale Envirronment 360” della Yale School of
Forestry & Environmental Studies) ed un riassunto di un progetto di qualche anno fa elaborato da un’impresa italiana (Bonifica S.p.a. del gruppo Iri) intitolato : “Transaqua”; e lì, al dire il vero, mi sono fermato anche perché i temi trattati
sembravano interessanti e promettenti per impostare un ragionamento sensato volto a stimolare l’avvio di progetti ed azioni concrete per cominciare a risolvere i problemi alla fonte e non alla foce, tanto per introdurre i temi dell’idrologia,
dell’idraulica e dell’irrigazione.

Il primo elaborato fa una rapida ricognizione delle crisi ambientali e sociali causate dalla costruzione di alcune dighe su bacini imbriferi naturali che scorrono, o, meglio, scorrevano liberamente nel Sahel (la regione arida che si estende per
3.400 miglia subito a sud del Sahara dal Senegal fino all’Eritrea) creando zone umide, periodicamente inondate, fino a coprire un decimo della regione fornendo pesce in abbondanza insieme ai rifugi per gran parte degli uccelli acquatici
provenienti dall’Europa oltre che a terreni umidi per le coltivazioni stagionali e ricchi pascoli, alternati a formazioni boscose varie, che mandrie e greggi condividono (o condividevano) con la straordinaria varietà della fauna selvatica
africana.

L’articolo cita tre casi principali indicando nella gestione di questi sbarramenti (evidentemente da rivedere e correggere prevedendo, per esempio, il minimo deflusso vitale a valle degli sbarramenti che in Europa vige già da parecchi lustri) la
causa principale del prosciugamento di laghi, pianure alluvionali e zone umide da cui dipendono milioni di persone causandone il dissesto sociale con massicce adesioni a gruppi armati o incessanti trasferimenti nelle metropoli locali con
il drammatico depauperamento della realtà rurale e sicuro trampolino per la successiva corsa verso l’emisfero nord europeo.

In ordine sono :
il bacino del fiume Senegal, che forma il confine tra Senegal e Mauritania collassato in seguito alla costruzione della diga di Manantali;
il bacino del fiume Niger in Mali, già oggi messo in crisi, nella zona del delta interno non lontano da Timbuktu (che fornisce l’80% del pescato del Mali e sostiene i pascoli per il 60% dei bovini sostenendo 2 milioni di persone) in seguito
alla costruzione della diga di Markala voluta dal governo del Mali e che sarà, probabilmente, definitivamente messo in crisi da una nuova diga già autorizzata nella vicina Guinea alle sorgenti del grande fiume;
infine il bacino del lago Ciad (privato del 70% delle acque del fiume Logone sbarrato dalla diga di Maga in Camerun e di gran parte delle acque del fiume Yobe ed abbandonato, dal 2013, da oltre 2,6 milioni di persone) insieme alla zona umida Hadejia-Nguru, nella Nigeria nordorientale, alimentata anch’essa dal “Yobe” sbarrato ripetutamente da alcune dighe evidentemente mal gestite se il risultato è stata la progressiva crisi di quei sistemi ambientali ed insieme umani.

Quest’ultima area sta, evidentemente, patendo la scarsità dei flussi naturali d’acqua a causa delle dighe costruite per garantire approvvigionamenti idrici alla città di Kano (la più grande della Nigeria settentrionale) che, per di più, vedendo continuamente incrementare la popolazione per l’arrivo degli “Esodati ambientali” finirà per assorbire tutta l’acqua disponibile senza per altro dare alternative a uomini, donne e bambini che tenteranno, a loro volta, la sortita europea.

Il secondo documento descrive rapidamente il progetto che prevede la derivazione una quota trascurabile d’acqua del bacino del fiume Congo (il 5% della portata annua pari a 1.900 miliardi di metri cubi) da indirizzare verso il lago Ciad per
ricostituirne, in alcune decine d’anni, il volume perso (oggi non supera il 10% delle dimensioni dei primi anni sessanta) realizzando, contestualmente, un canale navigabile lungo 2.400 chilometri collegando aree o paesi ora separati o isolati.
Il progetto prevederebbe il superamento dello spartiacque che separa il bacino del Congo da quello del lago Ciad ad un’altezza di 600 m. s.l.m. senza necessità di pompaggio per poi scendere per gravità fino al letto del fiume Chiari che si
riversa nel lago africano che, cinquant’anni fa, era il quarto lago più grande del continente.

Il progetto prevederebbe, al termine del canale, una diga per l’alimentazione di una centrale idroelettrica ed un porto fluviale per container, cioè un’area di scambio polifunzionale collegata alla grande strada transafricana che unisce i porti di Lagos e di Mombasa, cioè l’oceano Atlantico all’oceano Indiano.

Una ulteriore appendice del progetto intitolata “Interafrica” prevedeva di rendere perenne il grande fiume artificiale realizzato da Gheddafi in Libia con il più grande acquedotto del mondo che giornalmente, attraverso quattromila chilometri di tubazioni, pompa (o pompava) giornalmente seimila metri cubi d’acqua da un grande lago sotterraneo posto nel deserto del Sahara (acque fossili destinate ad esaurirsi entro qualche decennio) mediante un costante apporto d’acqua da un lago Ciad gradualmente riportato alle condizioni storiche.

Questi due lavori, che mi sono permesso di sottoporvi, oltre a ritenerli davvero interessanti sotto l’aspetto socio – ambientale ed agronomico, credo siano in grado di fornire una maggiore comprensione delle enormi problematiche che
originano, ormai in gran parte, il grande fenomeno migratorio in atto che, se non provvederemo per tempo a contenere con azioni concrete volte a riproporre la dimensione rurale perduta delle grandi distese africane, ancorché supportata da
presidi tecnologici (scolarizzazione, assistenza sanitaria, approvvigionamento energetico e capacità di comunicazione) adeguati a garantire prospettive di vita dignitosa a quelle popolazioni, diventerà davvero colossale ed inarrestabile con
conseguenze globali inimmaginabili.

Fermo restando che il semplice uso delle acque per fini idroelettrici non mette, necessariamente e da solo, in crisi un sistema fluviale in quanto l’acqua, nel far girare le turbine non viene consumata ne persa e nemmeno contaminata, le
stesse debbono, poi, necessariamente essere rilasciate a valle in quantità sufficienti a garantire sia il mantenimento di ecosistemi umidi essenziali per il sostentamento dei nativi, tramite le tradizionali tecniche agricolo – piscatorie, magari localmente integrate da qualche buon progetto di agricoltura intensiva supportata da tecniche di micro – irrigazione, ma anche quegli ambienti umidi che ospitano, nella stagione invernale, gran parte degli uccelli migratori d’Europa, pena la perdita in breve tempo di un elemento faunistico essenziale anche per le nostre terre ed i propri ecosistemi.

Valerio Montonati

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 12 Settembre 2018
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