Sentenza Alcatraz, agenti assolti: “Nessuno nel carcere se lo aspettava”

Nelle cinquanta pagine le motivazioni della decisione: pressapochismo, struttura fatiscente e una notte di pioggia hanno aiutato gli evasi

141Tour Miogni: i luoghi

Un carcere con “mura di cinta pericolanti a tal punto da non poter ospitare le sentinelle”. Sbarre “attaccate ai mattoni forati”. Rumori attutiti dalla partita di Champion’s Milan-Barcellona durante una sera di pioggia.

E agenti distratti con qualcuno che se la dorme “della grossa” in portineria.

Tutto scritto nelle cinquanta pagine di motivazioni con le quali i cinque agenti indagati e processati per l’evasione di tre detenuti sono stati assolti, fatta eccezione per uno, condannato per aver falsificato una relazione.

Reato relativamente lieve – “falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale”: un anno e sei mesi – rispetto ai reati contestati: procurata evasione, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, intralcio alla giustizia, induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

No, non vi è stato alcun disegno per favorire la rocambolesca evasione avvenuta nel 2013 dai Miogni, con telefoni cellulari che entrano in carcere perché custoditi nell’intimità di una donna, lime nascoste nei pacchetti di crackers e bancali utilizzati come trampolini per scappare.

Come sia finita la vicenda per i tre fuggiaschi, è noto: sono stati tutti ripresi dopo poco, chi ancora bagnato fradicio a bordo di un treno, e chi in un albergo in Svizzera: era bastato segare le sbarre, scardinare una grata e saltare il muro di cinta.

Le accuse agli “agenti infedeli”, invece, non sono bastate. Piuttosto il racconto ricostruito dai giudici sembra uscito da un romanzo pulp, con imputati distratti, sbadati, agenti che non fanno bene il loro lavoro, non eseguono il controllo quotidiano alle sbarre delle celle (la “battitura”) e non fanno la conta ai detenuti, la saltano, tanto da non accorgersi che ne mancano tre, se non alle 3 di notte, almeno due ore dopo l’avvenuta fuga, il 21 febbraio 2013.

Il motivo di questa situazione è sicuramente, secondo i giudici, anche da ricercarsi nel “clima che si respirava nel carcere, avvelenato da contrasti tra gli agenti e i loro superiori”, “disinvoltura nello svolgimento dei propri compiti” e “una tolleranza nei confronti dei detenuti che sconfinavano nel lassismo”.

I giudici non hanno neppure creduto all’ipotesi di piaceri sessuali da parte di alcune prostitute al servizio di uno dei detenuti fuggiaschi scambiati con favori da parte delle guardie: non vi era nessun giro di prostituzione controllato dal carcere, almeno non quello descritto durante le fasi del processo; né quel fiume di soldi così lungo da poter sistemare debiti insoluti o rate del mutuo non pagate: al massimo fra guardie e detenuti si poteva arrivare a qualche stecca di sigarette dal valore di poche decine di euro.

È uno spaccato che i giudici del tribunale di Varese hanno voluto fotografare e mettere nero su bianco in maniera impietosa, quello che emerge nelle pagine delle motivazioni del processo Alcatraz.

Ma come hanno fatto a fuggire questi tre detenuti? La risposta si nasconde dietro quello che senza troppi giri di parole sembra un ragionamento semplice, banale come la risposta data al pubblico ministero rumeno che interrogava il connazionale catturato dopo l’evasione.

Domanda: “Come hanno fatto a non sentirvi? Come siete riusciti a scappare?”
Risposta: “La vita è così, lo abbiamo fatto perché nessuno nel carcere se lo aspettava”.”E poi c’era la partita”

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 01 Ottobre 2018
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