Quattro continenti in una squadra, ecco lo Sciarè United
Una piccola storia vista da vicino: un quartiere molto unito, la società sportiva della parrocchia, il calcio come strumento di coesione sociale
«Ci manca giusto un australiano o un neozelandese. Mi sto impegnando ma non l’abbiamo ancora trovato». Alla squadra di Sciarè, a questo United di provincia, manca solo un giocatore dall’Oceania, nel gioco del celo-celo-manca con i cinque continenti.
Il campo da calcio sta nel mezzo del quartiere, all’ombra dei grandi palazzi di case in cooperativa costruiti dalle Acli negli anni Settanta, a fianco della chiesa moderna che richiama le forme di una nave. Emanuele Mulazzani è l’allenatore della squadra degli “under 12”. Tra le tante squadre del quartiere, ha il record di partecipazione di stranieri: «Metà squadra è italiana di origine italiana. Poi ci sono ragazzini che vengono da Cina, Congo, Costa d’Avorio, Tunisia, Marocco, Salvador, Turchia, Albania, Romania», dice cercando di non perdersi nell’immaginario tour globale. «Ah, dimenticavo: anche dalla Georgia». Molti ormai, in realtà con carta d’identità italiana.
Sul campo si corre sotto la pioggia, nel tardo pomeriggio d’autunno si sente lo stridere dei freni dei treni, gli annunci dell’altoparlante della stazione vicina. «Si inizia alle 18.30, chi arriva alle 18.31 fa flessioni e finisce in panchina domenica» precisa subito Mulazzani, che (come tutti nella società sportiva del quartiere, la Polisportiva San Paolo) lo fa come forma di volontariato, non certo per lavoro. Le regole imposte – spiega – sono relativamente rigide, anche per rafforzare lo spirito di squadra e «responsabilizzare i bambini, senza che intervengano per forza i genitori».
Mulazzani non è un fan acceso dell’integrazione “dall’alto” e delle iniziative estemporanee, al contrario tiene a sottolineare come il rapporto tra persone di origini diverse nasca – è il caso di dirlo – sul campo. «Abbiamo ragazzi e famiglie di quattro continenti, ma non ce ne accorgiamo neanche: da noi c’è davvero l’integrazione, anche se non mi piace usare questa parola. È una cosa naturale, siamo una comunità. Facciamo le merende condivise: ogni famiglia porta il suo, le mamme africane portano gli involtini, i cinesi portano enormi cabaret di pasticcini e così via». In realtà non è un risultato acquisito del tutto, ma soprattutto non è di sempre: «All’inizio non si facevano le feste di compleanno tutti insieme, c’era una specie di divisione».
Nello Sciarè United giocano ragazzini nati nel 2007 e 2008, fanno la quinta elementare e prima media. È interessante ragionare sugli anni: dieci anni fa, nel 2008, gli stranieri in Italia erano poco più di 3 milioni, le naturalizzazioni (l’acquisizione della cittadinanza) erano un fenomeno ancora secondario, poco più di 50mila l’anno. Oggi gli stranieri sono circa 5 milioni, nel 2017 le naturalizzazioni sono state poco più di 146mila. E tra i nuovi cittadini italiani ci sono appunto molti bambini, che sono nati e cresciuti in Italia: la lingua non è nella stragrande maggioranza dei problemi. Anche se a volte i bimbi da piccoli a casa parlano solo la lingua del Paese d’origine, la scuola qui funziona bene e colma il gap: partendo dal dato di forte incidenza locale (nel rione il 50% degli alunni è di origine straniera, contro la media del 29% nell’insieme degli istituti cittadini) l’Istituto di cui fa parte il quartiere ha lavorato per costruire percorsi dedicati, è stato capofila del progetto della Settimana dell’Intercultura a cui hanno partecipato tutti gli istituti.
Vabbè, ma qualche problema ci sarà, no? Mulazzani dice che «qualche volta c’è un eccesso di buonismo, ma poca roba». In che senso? «Capitava che si rinviasse l’incasso delle quote d’iscrizione di qualche famiglia, ma ora non succede più perché tutti si sentono sempre più parte». C’è invece la preoccupazione – più o meno strisciante – di essere etichettati: «La mia paura in realtà è vedere le persone che non partecipano al quartiere perché considerano la presenza degli stranieri come un problema, ad esempio a scuola».
Nello Sciarè United ci sono «sei-sette religioni, tra cattolici, avventisti, musulmani, evangelici, ortodossi». La storia della squadra multietnica è in realtà è anche la storia di una società sportiva radicatissima, la Polisportiva San Paolo. Come in moltissime altre realtà sono proprio i campi della parrocchia a fare da punto d’incontro per tutti i ragazzi: «La Polisportiva è nata nel 1998, ma ha aggregato la squadra di calcio San Paolo e quella della pallavolo Arcobaleno. che già esistevano fin dagli anni Sessanta quando è nata la parrocchia» spiega Rino Puzzovio, presidente della società. «Abbiamo centoquaranta tesserati, tra atleti e dirigenti. Abbiamo sette squadre di pallavolo Pgs, due di calcio Csi e due gruppi di danza sportiva sempre con la Pgs». I genitori sono attivissimi, la gestione del campo è tutta sulle loro spalle.
Dopo l’allenamento, alle 19.30, molti bambini rientrano a casa a piedi: è una vera squadra di quartiere e questo è un quartiere fatto di palazzi, dove moltissime famiglie abitano a poche centinaia di metri di distanza. Ogni tanto i ragazzini della squadra si ritrovano tra di loro: cena dal kebbabaro e poi serata al circolo del rione, in uno scenario un po’ insolito. «In realtà è un po’ un punto di riferimento vero della zona» spiega ancora l’allenatore.
Per una strana coincidenza, è lo stesso circolo che è finito in una notizia di cronaca finita fin sui giornali nazionali (un’aggressione a sfondo razziale,gli altri clienti peraltro reagirono). Dietro al banco da qualche tempo c’è una famiglia cinese, la stessa che ha aperto il ristorante cinese del rione vent’anni fa. Al bancone compaiono spesso i ferrovieri che escono dalla stazione di Gallarate, ma anche i pensionati FS che abitano nei palazzi vicini: è curioso vedere, in un quartiere di città, che il punto di riferimento sia ancora oggi il circolo che esisteva già sessant’anni fa e che ci vadano anche i ragazzini.
Al di là della presenza degli stranieri e del ruolo di tanti genitori italiani, la squadra di calcio è un modello di inclusione sociale anche su altri fronti. «Per noi la base è far crescere tutti, anche il ragazzino timido che fatica a parlare ad alta voce» dice ancora Mulazzani. «Per questo l’ho mandato in campo titolare: ho chiesto a tutti di affiancare per “proteggere” la sua zona del campo e insieme l’hanno fatto, superando anche la voglia di giocare solo per sé che hanno i bambini di questa età. Che si vinca o che si perda, queste sono le cose che contano. E in più abbiamo anche vinto».
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