Esce “L’alchimista di Venezia”, il nuovo libro di G.L. Barone

Esce giovedì 28 marzo per le edizioni Newton Compton il nuovo libro dello scrittore valceresino e firma del panorama letterario nazionale

Personaggi

Esce giovedì 28 marzo “L’alchimista di Venezia” (edizioni Newton Compt), il nuovo libro di G. L. Barone, scrittore valceresino (è residente a Saltrio) che da alcuni anni è ormai una firma nota del panorama letterario nazionale.

Il nuovo romanzo prende il via nella Venezia del 1700. Un ricco membro del Maggior Consiglio muore cadendo nel Canal Grande dalla finestra del suo palazzo. Tutto sembra far pensare a un omicidio passionale e il possibile colpevole è subito identificato dalle temute magistrature veneziane: Eliardo de Broglie, uno spiantato truffatore che, millantando di saper trasformare il piombo in oro, aveva circuito la moglie del defunto. Il giovane, fiutando il pericolo, riesce a fuggire grazie alla protezione di un’enigmatica nobildonna francese, Annika Stéphanie Brûlart, contessa d’Aumale. Ma l’aiuto ricevuto ha un caro prezzo: la donna affida a Eliardo la missione di recuperare un misterioso manufatto alchemico che le è stato sottratto. Solo dopo aver accettato, l’alchimista si rende conto che l’incarico è estremamente pericoloso. Tallonato dagli inquisitori e da un gruppo di mercanti ottomani, comincerà una caccia al tesoro che lo porterà a scoprire un’inaspettata verità. Un segreto antico, che dalla Magna Grecia è arrivato fino alle stanze del doge…

Per voi, in anteprima, il prologo e un assaggio del primo capitolo

Prologo

Venezia, venerdì 17 luglio 1761.

Dopo il tramonto.

“Facile come buttar giù un bicchier di vino”, pensò Eliardo, mentre portava le mani insanguinate davanti agli occhi.

Una macchia scarlatta si allargava velocemente sulla sua camisiola bianca.

“Così tanto facile che ci ho guadagnato una palla di pistola e ora anche una coltellata”.

Immobile, con i tacchi sul bordo del rio, alzò lo sguardo sulla piccola calle dei Puti. Nonostante i palazzotti con pinnacoli gotici fossero completamente immersi nelle tenebre, il suo aggressore l’aveva individuato ugualmente. Mascherato e avvolto nel tabarro nero che celava un fisico imponente, si era fermato a pochi passi da lui.

Fissando la sagoma slanciata dei Carmini, che si stagliava dietro il gigante, l’alchimista allargò le braccia in segno di resa. «Non fatemi del male», implorò, immaginando chi si nascondesse dietro la moretta. «Cosa volete?, È per quella pietra? non ho rivelato nulla agli ottomani».

L’aggressore lo ignorò e avanzò con l’agilità di un gatto. In un riflesso metallico estrasse dalla velada il quadrello appuntito, che fece scivolare nella mano.

Eliardo deglutì, terrorizzato. Aveva già visto in azione quella specie di stiletto con la lama quadrata, e sapeva bene quanto dolore provocasse. La ferita sanguinante che portava sull’addome era il segno più recente, ma non il solo. Scrutò dietro di sé: il rio de San Barnaba non era che a mezzo passo, una tavolozza di ombre increspate che ondeggiava sotto le gondole.

Passò in rassegna tutte le possibilità: cercare di superarle l’aggressore, fuggendo poi verso campo santa Margarita? avrebbe dovuto spintonarlo, nella speranza che cadesse. Improbabile, se non impossibile: non era così agile e neppure forte; oltretutto era disarmato e l’uomo mascherato ostruiva l’angusto passaggio che dava accesso alla calle.

E allora?

L’unica altra via d’uscita era voltarsi e saltare nel rio sottostante. Non era l’opzione migliore, soprattutto perché era ancora spossato dalla febbre… tuttavia…

Lanciò un’occhiata furtiva, cercando di misurare le distanze, ma proprio in quel momento l’aggressore si fece sotto, agitando il quadrello.

L’alchimista ebbe fortuna: lo anticipò e schivò il fendente di un soffio. Si girò, molleggiandosi sulle gambe e tentò di tuffarsi, senza riuscirci. Si sentì afferrare tra la parrucca e il bavero del mantello e fu tirato indietro.

«Dove credi di andare, gaglioffo».

Aveva sentito quella voce solo una volta, ma ora ne era certo: era davvero lui… Perché lo stava aggredendo?

A quel punto non si fece pregare: raccolse tutte le forze che gli rimanevano e si divincolò, mordendo una mano al gigante. Questi, preso alla sprovvista, mollò la presa quel tanto da permettere a Eliardo di spiccare un salto verso il centro del canale. L’alchimista si librò nell’aria agitando le gambe, e cadde in acqua a mezza via, a non più di cinque o sei braccia dalle fondamenta sul lato opposto.

Impacciato dall’abito da damerino, dalle scarpe con la fibbia e dallo jabot, nuotò per qualche bracciata prima di guardarsi all’indietro.

L’aggressore era sempre lì, sorpreso più che indispettito. Stringeva tra le dita ciò che gli rimaneva della sua preda: il mantello e la parrucca incipriata, tenuta insieme dal solitario nero. Li gettò a terra con un gesto d’ira e, mentre urlava qualcosa, si mosse rapidamente.

Eliardo, nella foga del momento, non riuscì a comprendere a pieno cosa stesse accadendo. Si concentrò invece sulla fuga e riprese a nuotare, trattenendo il fiato mentre infilava la testa sott’acqua. Il suo piano, anche se era esagerato chiamarlo così, era quello di uscire dal rio appena fosse stato sufficientemente lontano e poi mettersi a correre. Il Casin dei Nobili non era poi così distante e le tenebre di campo San Barnaba gli avrebbero agevolato la fuga.

Quando non ne poté più si appoggiò alla cima di una peota ormeggiata e si arrampicò sulle fondamenta. I suoi pizzi dorati erano fradici e imputriditi dall’acqua salmastra. Ma quello era l’ultimo dei problemi: fu allora, infatti, che comprese davvero il guaio in cui si era cacciato. Il gigante non era venuto da solo. Due mantelli neri, che dovevano aver atteso nelle vicinanze, adesso avevano attraversato il ponte e avanzavano minacciosi.

L’alchimista, esausto per la nuotata, imprecò e prese a correre a testa bassa. Aveva poco vantaggio e la ferita al costato gli pulsava come se i visceri volessero uscirgli dal panciotto.

Giunto a rio di Casa Canal, voltò a sinistra salendo i gradini del ponte. Cercò di individuare l’aggressore verso i campaniletti dell’Anzolo Rafael rischiarati dalla luna, ma le tenebre sembravano averlo inghiottito. Non era così: e nel tempo di un respiro se lo trovò davanti, a ostruirgli la via.

Deglutì e indietreggiò. Questa volta non ebbe il tempo di elaborare un nuovo piano di fuga, perché i due compari con il tricorno sul capo lo afferrarono per le braccia.

«State sbagliando persona», squittì, cercando di divincolarsi. Uno lo spinse verso il parapetto, per impedirgli di muoversi.

Il gigante, intanto, lo squadrò imperscrutabile alla luce inquieta di un lampione. Eliardo de Broglie, se davvero quello era il nome dell’alchimista, aveva un’espressione intenzionalmente sfacciata, che sfuggiva da un viso giovanile, aggraziato, quasi femminile. Aveva il piglio di chi, dopotutto, è indifferente alla sorte che gli ha riservato il destino.

«Non ho io ciò che cercate. Perché lo state facendo? Giuro che non ce l’ho», tentennò ancora l’alchimista, in cerca di un’improbabile via d’uscita. «Lo giuro, non ce l’ho. A Murano sono svenuto, non ricordo nulla… ahi!».

Uno degli aggressori gli tappò la bocca e passò la mano nerboruta sul collo, scostando i lunghi capelli bagnati. Gli inclinò la testa in avanti.

«State fermo, messerin Eliardo», sibilò il gigante, atono. Brandendo il quadrello, salì lentamente i gradini del ponte e i riflessi del rio gli danzarono sulla maschera. «Siete stato bravo ad arrivare fino a qui… ma ora dobbiamo finire il lavoro».

«Madame d’Aumale sa quello che mi state facendo?». L’alchimista provò a muoversi, ma i due energumeni glielo impedirono di nuovo. Non sapeva che intenzioni avesse quell’uomo ma, forse, non lontano si era appena materializzata una via di fuga…

L’aggressore alzò il pugnale e, con un movimento sapiente del polso, glielo piantò dritto sulla spalla ferita. Un fiotto di sangue schizzò violento sulla fasciatura, ma l’uomo non vi badò. Quella era la parte più difficile.

«Aiuto!», urlò l’alchimista. Adesso ne era certo, a non più di cento passi, nella zona ceca tra due lampioni, c’erano due sbirri, con uniforme e lanterna. «Aiuto», provò ancora, e quelli si misero a correre. Ma molto prima che riuscissero a raggiungerlo, Eliardo sentì le gambe cedere.

Subito dopo, il gigante prese ad armeggiare sul calcio del quadrello: fu costretto ad agire in fretta, su e giù dentro la ferita, con un occhio all’aculeo e l’altro agli sbirri, che sopraggiungevano veloci urlando qualcosa.

L’alchimista assistette alla scena come se si fosse svolta sul palco del teatro San Luca. Era impotente e al tempo stesso incredulo: stava per morire nonostante le autorità fossero a pochi passi da lui… Dopo la fitta iniziale, ora non sentiva neppure più il dolore.

Non seppe mai per quanto tempo i suo aguzzini avessero girato quello strano pugnale nel suo corpo; dopo pochi attimi un caldo insopportabile invase le sue membra e i sensi cominciarono ad abbandonarlo.

L’ultima cosa che provò, mentre veniva scaraventato violentemente nel canale, fu un senso di pace e rilassatezza.

“Facile come buttar giù un bicchier di vino”, avrebbe protestato, se avesse potuto. Ma ormai non poteva più.

Una settimana prima

Capitolo 1

Palazzo Venier, sestiere San Paolo, sabato 11 luglio 1761.

Poco dopo l’alba.

Nuvole bianche e nere, alternate a squarci di cielo azzurro striato di rosso.

Sbatté le palpebre, abbagliato dalla luce mattutina, e mosse qualche altra falcata incerta sul tetto umido. Incespicò e dovette poggiare le mani sui coppi per non cadere di sotto. Barcollando, si aggrappò a un comignolo fumante e tornò a scrutare in alto, oltre le guglie e i campanili. Doveva ammetterlo, da lì la vista dell’alba specchiata dalle polifore del canal Grande era impareggiabile.

Non che si fosse arrampicato fin lassù per vedere il sole sorgere. Nent’affatto. Oltretutto con indosso solo una misera camiciola che svolazzava a ogni folata di vento. Ma meglio infreddolito, che morto…

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Pubblicato il 27 Marzo 2019
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