Misurare la cultura per gestire il cambiamento nell’impresa
Raffaella Bossi Fornarini, docente del MIP, la business school del Politecnico di Milano, è intervenuta al congresso dell'ordine degli ingegneri di Varese
Si parla molto e genericamente di cultura d’impresa, ma troppo poco di come la cultura plasma le organizzazioni e di come le persone pensano e interagiscono con gli obiettivi dell’azienda, soprattutto quando questa opera in contesti internazionali. Un tema centrale in un’economia globalizzata, dove imprenditori e manager sono chiamati a interagire con mercati e partner che vanno ben oltre il cortile di casa.
Raffaella Bossi Fornarini, docente del MIP, la business school del Politecnico di Milano, e fondatrice di Passport, è intervenuta al congresso dell’ordine degli ingegneri della provincia di Varese per affrontare il tema della cultura e la gestione dei progetti.
Professoressa, cosa si intende per “cultura” all’interno di una azienda?
«La cultura è il dire come si fanno le cose e riguarda molto le interazioni tra le persone, come queste considerano la gerarchia, per esempio. Se io lavoro a un progetto e vivo in un’azienda fortemente gerarchica e verticistica i miei tempi di gestione saranno diversi rispetto a quelli di chi lavora in un’azienda con un’organizzazione più snella e orizzontale. I due manager si daranno dei tempi che fanno riferimento a due mondi diversissimi tra loro: uno dovrà scavalcare una gerarchia impiegando più tempo, l’altro arriverà all’obiettivo più velocemente. Il tema di fondo è valorizzare la diversità».
E come si fa a misurare questa attitudine culturale?
«Lo faccio con strumenti proprietari, come la due diligence interculturale o il change agility assessment che misura le reazioni delle persone in contesti gestionali, non psicologici, e aiuta i manager a definire la cultura richiesta per un particolare contesto, ruolo e posizione. Interagire con gli altri è una caratteristica importante e gli strumenti che utilizziamo ci permettono di mappare la cultura dell’azienda e di lavorare sui gap, intervenendo sui processi, sulle persone che si assumono e sulla definizione di leadership. Le organizzazioni aziendali sono complesse e quindi bisogna mettere mano a tanti pezzi dell’organizzazione. È uno sforzo che viene premiato con un vantaggio competitivo e un impatto sul profitto».
Lei di fatto gestisce il cambiamento che è la cosa più difficile da fare, soprattutto nell’impresa italiana, pervasa da uno spiccato individualismo.
«Il cambiamento è difficile da gestire ma come si diceva si può rappresentare mostrando le modalità da attuare. Uno dei parametri è la conoscenza: riesco a essere più agile quanto ho più la capacità di raccogliere le informazioni che mi servono. Il test dà il livello di partenza, dà una serie di indicazioni per rafforzare alcune aree precise, analizza la distribuzione delle persone di un team sulle fasi della diffusione dell’innovazione e poi c’è la variabile tempo e con essa le priorità. Io e il mio team lavoriamo sull’atteggiamento che le persone hanno quando devono affrontare questa complessità».
Come ha reagito la platea di ingegneri presenti al congresso di Varese?
«Ho avuto la sensazione che fossero coinvolti. Credo che il tema di come la cultura impatti sui processi, sia un argomento cruciale in questa fase storica. Gli imprenditori e i professionisti se ne accorgono quando espatriano perché diventa difficile fare le cose in un modo nuovo e quando accade non è poi così scontato».
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