Binda? “È innocente, lo dice la scienza“

Depositate le motivazioni della sentenza d’appello che ha trasformato la condanna all’ergastolo in primo grado in assoluzione per non aver commesso il fatto

Avarie

L’unica voce credibile, nel processo per l’assassinio di Lidia Macchi è «paradossalmente, quella della vittima». Che, in effetti, «ha parlato attraverso la scienza», scagionando Stefano Binda. È un fiume in piena il senso che lascia la lettura delle motivazioni della sentenza della prima sezione della Corte d’assise d’Appello di Milano depositate nel pomeriggio di giovedì scorso e rese pubbliche ieri.

Un fiume in piena per la vastità dello scritto, di oltre 250 pagine, ma soprattutto per i passaggi che in più punti suonano come un lungo atto d’accusa contro le indagini svolte che hanno causato a Stefano Binda oltre due anni di custodia cautelare in carcere prima della sentenza che come fine pena indicava “mai“.

Sono svariati i passaggi in cui si respira tutto questo: dalla diversa veduta sui testimoni che a partire dalla sera della morte di Lidia videro qualcosa nel piazzale dell’ospedale nei giorni successivi al Sass Pinì fino alle indagini seguite alla riesumazione del corpo, tre anni fa, da dove emersero già allora elementi che avrebbero potuto scagionare Binda, vale a dire i peli recuperati nelle cavità pelviche della vittima che appartenevano ad un soggetto ignoto con cui la ragazza ebbe il primo rapporto sessuale della sua vita, quasi certamente appartenenti all’assassino, ma con certezza non erano di Binda: questo elemento, valutato come “neutro” avrebbe potuto escludere la responsabilità dell’imputato.

«Tracce biologiche che – si legge nelle motivazioni – ancora oggi se lo si reputasse davvero necessario, potrebbero essere proficuamente comparate con quelle rinvenute ed isolate sui lembi della busta contenente l’anonima “In morte di un’amica”».

«Se – com’è altrettanto possibile e fors’anche decisamente più probabile – dette tracce non fossero geneticamente coincidenti, allora si smetterebbe, finalmente, di favoreggiare ed interrogarsi sull’identità di chi ebbe l’infelice idea di prodursi un anonimo lirismo funebre, consegnando “In morte di un’amica” all’oblio processuale che si merita, per concentrarsi con il dovuto impegno solo sull’identificazione di colui che, dopo aver consumato un rapporto sessuale con Lidia la uccise».

E qui il giudice Livia Caputo si spinge ad affermare che la strada investigativa per raggiungere la verità è in salita, «ma ancora percorribile».
Ancora «quella stessa scienza ch’è riuscita a dar voce processuale alla vittima, ad onta del tempo trascorso degli errori compiuti per i quali non si può far altro che esprimere rammarico e fare ammenda, ha dato un aiuto decisivo e dirimente anche all’imputato Sefano Binda».

Errori che sicuramente passano per i passi falsi del passato, come la faccenda della distruzione dei vetrini. Nell’agosto 2009 il servizio centrale di polizia scientifica creò l’unita “Delitti insoluti” con l’obiettivo di rivisitare attraverso gli aggiornamenti della genetica forense quei casi che presentavano reperti suscettibili di approfondimento biologico: tra quelli c’era proprio l’omicidio di Lidia Macchi, noto dal servizio per aver effettuato accertamenti sul DNA nel 1987. Ma i 13 vetrini contenenti lo sperma estratto dal corpo della vittima non si trovavano più. Ma non perché fossero spariti, in quanto vennero distrutti il 31 ottobre del 2000 su ordine della magistratura per liberare gli spazi dell’ufficio corpi di reato di Varese: assieme agli oltre cento chili di droga e alle 300 armi presenti venne distrutto anche il corredo genetico del probabile assassino. Questi vetrini, la prova regina nel processo, vennero sottoposti a un tentativo di analisi già nel 1988 coinvolgendo il laboratorio inglese di Abingdon per l’analisi che tuttavia non riuscì: ancora pochi anni e la scienza sarebbe riuscita a cristallizzare un elemento decisivo.

Il passo successivo della storia processuale avvenne nel 2014 quando l’amica di gioventù dell’imputato, Patrizia Bianchi, sentì parlare a “Quarto grado” della poesia trovata nella borsa di Lidia “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, cavallo di battaglia di Stefano con cui la donna intrattenne uno scambio epistolare. Difatti quando i giornali pubblicarono la lettera “In morte di un’amica”, la Bianchi riconobbe la scrittura dell’amico e andò alla polizia sicura che si trattasse della stessa grafia. E proprio nel processo di fronte ai giudici milanesi, il colpo di scena: un avvocato di Brescia, Piergiorgio Vittorini già chiamato in primo grado nel processo a Varese, parla: «Nel 2017 si rivolse a me un uomo che disse di essere l’autore della lettera». L’avvocato oppose due volte – primo grado e appello – il segreto professionale circa le generalità del poeta: per lui è troppo rischioso esporsi dal momento che non ha un alibi plausibile per la notte in cui avvenne l’omicidio.

Ma secondo la corte d’appello, la lettura di questo scritto attribuita all’assassino è una suggestione non ascrivibile in alcun modo a Binda.
La lettura di questi ed altri elementi emersi nel processo e messi a carico di Stefano Binda rappresenta per i giudici milanesi una «incoerenza cui questa corte reputa di dover porre rimedio e che risiede principalmente nell’essersi affidati per l’accertamento della verità storica e processuale a prove dichiarative per lo più esauritesi in pochi e insignificanti fatti concreti e moltissime personali congetture».

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Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 20 Ottobre 2019
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