“Membri di una comunità, non consumatori di notizie. Così il giornalismo può riconquistare fiducia”
Federico Badaloni, l'uomo dietro i siti web del Gruppo GEDI tra cui Repubblica, la Stampa e l'Espresso, racconta come è possibile invertire la rotta del giornalismo che, prima del declino delle vendite, deve affrontare il declino della fiducia
«Ivan e Domenico sono due ragazzi giovani che hanno studiato, sono attenti, intelligenti, hanno ruoli di responsabilità. Eppure mi hanno detto che, qualche tempo fa, hanno deciso di non leggere più i quotidiani e vedere i telegiornali, e che la loro vita è migliorata. E come loro sono il 36% delle persone, secondo le statistiche». Una percentuale, questa, estratta da una conferenza al teatro Santuccio di Federico Badaloni. Una conferenza lunga e ricchissima di dati, idee, spunti, riflessioni. Al festival Glocal 2019, organizzato da VareseNews, l’architetto dei siti del Gruppo GEDI ha parlato con i presenti dei mali del giornalismo, dei perché – tanti – del calo costante dei lettori e delle sue idee su un possibile inversione del trend.
L’architetto del Gruppo GEDI Federico BadaloniDa abile oratore – insegna all’Università Iulm di Milano al master di Architettura dell’informazione – divide la conferenza in due parti. La prima, che definisce «pars destruens», è un elenco impietoso sul rapporto tra lettori, ovvero cittadini, e giornali: «Il News Report di Reuters del 2019 indica che il 60% degli italiani reputa le notizie che leggono o sentono non affidabili; il 36% delle persone fugge volontariamente dalle notizie, come Ivan e Domenico, per senso di angoscia, alimentato soprattutto dai giornalisti; il 52% non riesce a distinguere le notizie vere da quelle false: dovrebbe essere proprio il mestiere dei giornalisti. E tanto altro ancora». Il News Report di Reuters (qui il capitolo dedicato al nostro paese) nasce da un’analisi dell’agenzia di stampa britannica, che in ogni paese ha intervistato 2000 persone.
Ci sono risposte decisamente interessanti: «Il 39% degli italiani – spiega Badaloni – crede che i giornalisti non diano importanza sufficiente alle notizie positive, e ciò crea in loro il senso di angoscia che li allontana dal mondo dell’informazione. E solo il 33% – continua – ritiene che i giornali facciano le pulci ai poteri economici e politici, che tengano fede al loro ruolo di guardiani del potere. Mentre, incredibilmente, tra i giornalisti solo il 44% pensa che questo sia necessario».
Dopo tanti dati amaramente snocciolati, inizia la pars construens. Perché il giornalismo, che rimane ancora un caposaldo della democrazia, deve riconquistare fiducia. Fiducia è il concetto su cui Badaloni torna più spesso: «Il giornalismo deve riconquistarla al più presto. È un percorso lunghissimo, lo sappiamo tutti, ma io ho delle idee. Una di queste è quella di mettere la cucina in vista: come i ristoranti che vogliono far dimenticare ai clienti una recente invasione di blatte. Non c’è nulla di male nel dire come si fanno le cose; al contrario, è indice di trasparenza. Riporto un esempio pratico: un anno fa, abbiamo riprogettato il sito di le Scienze, il mensile di divulgazione scientifica. Prima di tutto, abbiamo chiesto ai lettori cosa ci avrebbe resi più affidabili. L’88% ha risposto che avrebbe voluto trovare il link diretto alle fonti, se non direttamente il file embeddato; il 67% avrebbe voluto trovare la biografia degli autori; il 43% indicava la correttezza nella lingua e l’attenzione ai refusi; il 12% un giudizio positivo sulla grafica, mentre il 7% suggeriva la possibilità di inviare segnalazioni e trovare correzioni».
Tutte queste richieste dei lettori hanno portato alla nascita del Trust Project. Un progetto internazionale che ha l’intento di sviluppare standard di trasparenza nei giornali per garantirne la credibilità. È stato creato da diverse testate di tutto il mondo, tra cui il Washington Post, la dpa (deutsche presse agentur, l’agenzia di stampa tedesca), l’Economist, The Globe and Mail; tra i quotidiani italiani, Repubblica e la Stampa. I direttori di 80 testate, tra cui Mario Calabresi – che a Glocal ha presentato il suo libro – hanno lavorato sugli indicatori da valutare per un buon posizionamento sui motori di ricerca. Google ha partecipato attivamente al progetto: Richard Gingras, vice-president di Google News che è stato tra gli ospiti più attesi di Glocal, è un cofondatore. «Se l’articolo – illustra l’architetto Badaloni – è ben chiaro, ed è quindi esplicitata la sua tipologia – inchiesta, editoriale, satira, contenuto pubblicitario – Google lo premia».
«Le persone dovrebbero sapere chi finanzia la testata, com’è composta la redazione, come viene fatto il fact checking, il controllo dei fatti. Deve farsi un codice etico e pubblicarlo. Inoltre, dovrebbe sviluppare un proprio algoritmo; quelli di Facebook e Google sono elaboratissimi, ma purtroppo anche segreti. I giornali invece dovrebbero renderli pubblici. Basterebbe, per fare un esempio, un algoritmo per mostrare in automatico gli articoli correlati».
«Una persona deve conoscere come funziona una macchina per potersi fidare e guidarla», spiega Badaloni, citando lo sbadato Artur Weasley della saga di Harry Potter. E vede i lettori come «compagni di viaggio, invece che abbonati. Il termine stesso di abbonamento è sbagliato. La parola anglosassona membership ha un significato diverso, più ampio, e più giusto. I propri lettori dovrebbero sentirsi parte di una comunità, nella quale possono partecipare commentando, segnalando errori, facendo domande. Un’iniziativa che alcune testate stanno tentando, positivamente, è il caffè con il direttore. Poi penso al Texas Tribune: da qualche anno organizza un incontro settimanale con i sindaci, o i capi delle aziende. Sono incontri aperti a tutti, ma solo i membri possono fare domande. In poco tempo, questa formula è stata copiata anche dalle testate concorrenti». La storia del Texas Tribune, giornale online nato appena 10 anni fa, è narrata egregiamente da Poynter. Altri esempi in tal senso sono stati raccontati venerdì 8 novembre in sala Campiotti, sempre nell’ambito di Glocal: tra le diverse realtà da tutto il mondo, spunta il progetto di Noteworthy, un sito irlandese che propone alcune inchieste di approfondimento indicandone la cifra necessaria per essere realizzate. I lettori decidono quindi se finanziarla o meno; se raggiunge la cifra necessaria, l’inchiesta parte.
Badaloni insiste su un modello di membership a pagamento, affinché sia «il lettore che finanzia il giornale, e non semplicemente le pubblicità. Il New York Times sta registrando un costante calo di entrate derivanti dalla pubblicità. Tuttavia gli abbonati crescono, e quindi i conti sono a posto. Certamente è difficile portare le persone a pagare per abbonarsi al giornale: abbiamo constatato che solo le persone che entrano nel nostro sito più di una volta a settimana, ovvero la minoranza di visitatori, possono pensare di abbonarsi; quanto agli altri, è praticamente impossibile».
Dai tanti dati forniti da Reuters, Badaloni ne estrapola uno particolarmente interessante: il 30% delle persone ha ascoltato almeno un podcast nell’ultimo mese.
«Questo dato suggerisce come le testate debbano essere polimorfe. Noi di Repubblica, da qualche tempo, abbiamo lanciato su Rep (la piattaforma del giornale disponibile solo agli abbonati, ndr) la modalità audio per gli articoli: gli editoriali di Ezio Mauro, Gad Lerner, Massimo Giannini, si possono anche ascoltare. Questa opzione sta avendo un grande successo, perché le persone possono usufruire dei nostri contenuti anche mentre guidano, stirano, o fanno altre attività. Ma per tutto questo ci vuole elasticità e disponibilità a cambiare il proprio lavoro. Oggi, in Italia, ci sono ancora tanti giornalisti legati alla sola scrittura, o addirittura alla carta: le loro preoccupazioni sono ‘Quante battute ho?’, ‘Dove andrà il mio articolo?’. Inutile dire che si tratta di un limite gigantesco».
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