Allo spazio Yak “Spomenik”, quello che rimane della Jugoslavia di Tito

Un viaggio fotografico questa sera venerdì 13 dicembre alle 21 allo Spazio YAK delle Bustecche. Il fotoreporter Alberto Campi presenta il suo lavoro

Generico 2018

Il nostro paesaggio quotidiano è costellato da opere commemorative, sculture che invitano a ricordare, personaggi storici cristallizzati per sempre in una colata di bronzo. Sono un contorno della socialità servita nelle piazze il cui ricordo rivive in coincidenza di una ricorrenza storica. Ma quanto contribuiscono questi monumenti storici a costruire il paesaggio interiore delle persone? E che nuovi significati possono assumere in un mondo che cambia velocemente?  È la stessa domanda che si è posto Alberto Campi, 37enne fotoreporter varesino membro del collettivo di giornalisti indipendenti We Report che ha base a Lione. Campi collabora anche con diverse testate giornalistiche internazionali come Mediapart, Libération, La Citè e Les Jours.

Nel 2012 il fotoreporter decide di avviare un progetto fotografico recensendo i monumenti antifascisti (sono circa 6.000) eretti in Jugoslavia tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1991 data della dissoluzione della repubblica federale. Venerdì 13 dicembre alle 21 la fotografia di Campi salirà sul palco di Spazio Yak di Varese (la Piramide del quartiere Bustecche) per raccontare questo viaggio per immagini sulle strade della ex Jugoslavia da cui nascerà il libro “Spomenik” (Edition la Cité) che in serbo croato significa monumento. Sarà accompagnato da un reading di Stefano Beghi e dagli interventi del giornalista Michele Mancino e dello storico Enzo Laforgia.

Tutto è iniziato durante un reportage che Campi stava facendo per Radio France Internazional in Croazia: «Mi trovavo a Jasenovac e notai che in cinque giorni c’erano cinque commemorazioni diverse allo stesso memoriale il “Fiore di pietra” di Bogdan Bogdanović un’opera in cemento armato che disegna il paesaggio circostante».

Ma che cosa l’affascinava di quest’opera: il significato o la forma?
«Mi affascinano le forme. Ma al tempo stesso mi chiedevo che impatto avesse quel monumento sulle persone. E così ho iniziato a discutere con gli abitanti del posto, con storici dell’arte e vari esperti per capire quanto rimanesse del significato originario di quell’opera nella contemporaneità. Intervistando i ragazzi di 20 anni mi accorgevo che per molti di loro non aveva alcun significato, era come una presenza muta che non necessariamente è destinata all’oblio. Altre volte invece, dove c’era un interesse politico l’opera perdeva la sua neutralità ».

Che tipo di opere sono quelle che lei ha mappato?
«Sono perlopiù astratte, raramente figurative, aspetto che spiega la mancata distruzione delle stesse opere durante e alla fine della guerra. Sono opere monumentali che celebrano un momento storico, quello della lotta antifascista,  e non solo il leader storico Tito che morì nel 1981 la cui figura rappresenta ancora molto per la popolazione slava. Solo alcune sono andate distrutte».

Un’opera può assumere un significato diverso se cambia il contesto?
«Io faccio sempre l’esempio di piazza del Garibaldino a Varese. In quella piazza, punto di riferimento della città, in pochi metri si celebrano l’Italia risorgimentale, quella colonialista e quella separatista leghista. Non a caso proprio lì c’è la sede del Carroccio. Certo, il solo fatto di mettere una pietra in più in quello spazio, può modificarne il significato».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 13 Dicembre 2019
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