Moni Ovadia: “Io, un ebreo agnostico che stima Papa Francesco”
L’intervista a Moni Ovadia, a Gallarate per Filosofarti: “Io e Alberto Sironi eravamo due sbandati”. Una vita tra teatro, musica e il rapporto con le religioni: “Ho più amici preti che rabbini”
«Mio padre voleva fortemente che diventassi medico o banchiere. Ovviamente non lo ascoltai. Vorrei passare due minuti con lui e spiegargli che sono stato felicissimo facendo tutt’altro, senza inseguire il denaro». Un ebreo agnostico e «zingaro» venuto al teatro delle Arti a elogiare un’opera del Papa. Moni Ovadia ha aperto Filosofarti 2020 con un monologo teatrale incentrato su Laudato si, l’enciclica di Papa Francesco dedicata alla difesa dell’ambiente e rivolta a tutta l’umanità.
Un fiume in piena che ha intrattenuto il teatro gremito di persone spaziando tra religione, diritti umani, politica. Tra elogi al Papa («L’unica autorità nel mondo con una statura morale adeguata») e riflessioni sul futuro del nostro pianeta, si è lasciato andare a qualche osservazione amara sul presente. «Anni fa, negli ambienti comunisti si ripeteva ossessivamente “non moriremo democristiani”. Adesso direi “magari!”. Nel tempo ho conosciuto democristiani coltissimi; mi levai il cappello quando conobbi Mino Martinazzoli. Poi c’è stato un progressivo decadimento: oggi, chiunque conquisti un po’ di popolarità si crede Dio in Terra».
A 74 anni e con un esperienza decennale nel teatro recita a braccio, improvvisa molto, e quando si dimentica qualcosa rimedia subito con un Witz tipico dell’umorismo ebraico, di cui è un grande esperto: «Ci sono due vecchi ebrei che si incontrano per strada. Uno dice all’altro: ‘Tu che sei molto intelligente, cos’è meglio tra arteriosclerosi e Alzheimer?’. ‘Ma è semplice – risponde l’altro – È meglio l’arteriosclerosi. Perché quando ce l’hai ti dimentichi di avere l’Alzheimer”».
Lo abbiamo intervistato a margine dello spettacolo, partendo dall’incontro che ha avuto con la comunità sinti di Gallarate.
Cosa ne pensa della situazione dei sinti qui a Gallarate?
«L’atteggiamento nei confronti dei sinti è stato dettato da pura cattiveria. Credo si possa parlare di pulizia etnica. Sono cittadini italiani, vivevano in un’area di periferia: perché accanirsi? perché una bella città come Gallarate deve vivere questa situazione? Liliana Segre ci ha dato una grande lezione: “La cosa peggiore che possa capitare a un essere umano non è essere vittima, ma essere carnefice”».
Prima dello spettacolo è andato a incontrarli.
«Ho trovato gente semplice, non ha avuto reazioni violente. Ha subìto situazioni pessime, come un servizio di Mario Giordano che li definiva dei “rom ricchi”, quando non sono né rom né ricchi; si denunciava la presenza di una piscina, ma si trattava soltanto di una bagnarola di plastica. Noi siamo tutti esseri umani. Alla fine il nazismo è cominciato così. Non con i campi di sterminio, ma con le limitazioni delle libertà e le espropriazioni. A che vantaggio lo si sta facendo? Per raschiare il voto di quattro beceri? Secondo me non conviene neanche al sindaco; spero se ne renda conto».
Cosa farà adesso? Si rivolgerà a qualche televisione?
«Proverò a contattare Formigli o Iacona, o altrimenti qualche giornalista delle trasmissioni mattutine e pomeridiane, come Myrta Merlino o Tiziana Panella. Vorrei portare alla ribalta questa situazione; sono troppo legato a Gallarate, e a don Alberto. Questa città non si merita questa situazione. Spero che il sindaco ritragga la sua decisione. Dovremmo capire che non tutti vogliono vivere allo stesso modo. E qualcuno vuole farlo, perché dovremmo impedirglielo?».
Com’è tornare in questa città? Lei fu molto amico di Alberto Sironi, il grande regista di Montalbano scomparso l’agosto scorso.
«Mi porta sempre in mente molti ricordi. Io e Alberto eravamo due scappati di casa: lui un teatrante, io una specie di musicante. Venivo spesso quando organizzava i cineforum per gli operai. Mi ricordo certi commenti à la Fantozzi: “Alberto, bello l’Antognoni, ma ‘n se capisse un’ostia!”.
Mi ricordo più recentemente una mia visita al centro culturale islamico; ero venuto a perorare la loro causa. E poi l’amicizia con don Alberto, che ha appena compiuto 80 anni. È bello essere qui in un’occasione così importante: di fatto Filosofarti esiste grazie a lui».
I suoi genitori, ebrei bulgari, sono sfuggiti ai nazisti. Oggi teme la rinascita di nazionalismi che possano minacciare le minoranze?
«No, non vedo un vero pericolo. Del resto, come dice Noah Chomsky a proposito degli Usa, “L’America sarebbe un posto perfetto per il fascismo, se non fosse che le piacciono troppo i soldi”. In una società consumistica non c’è il pericolo che si ricreino certe situazioni. Però può succedere che alcuni scalmanati, dei fanatici, si scatenino. Ci saranno sempre. Il fascismo esiste ancora nella società, in dimensioni ridotte, perché c’è sempre bisogno di un nemico. Ma per il fascismo c’è un solo giudizio: fu un crimine. Mussolini fu il più grande nemico degli italiani: non partecipò alla Marcia su Roma perché era pronto a scappare in Svizzera; ebbe un’amante ebrea, Margherita Sarfatti, di cui disse: “È la donna che ha fatto di me il fascista che sono”. La sorella della Sarfatti mori ad Auschwitz. Mussolini pugnalò alla schiena i camerati ebrei, come Aldo Finzi e Renzo Ravenna».
Cos’ha pensato, dentro di sé, quando ha visto quelle scritte antisemite a Mondovì?
«Niente. Conosco la mentalità nazista, quelli non sanno neanche quello che dicono. Quello che mi fa paura, tuttavia, è la maggioranza silenziosa. Che sottovaluta. E non ci sono abbastanza prese di posizione decise. Il 13 febbraio per esempio ero a Torino a presentare un documentario della BBC, The Fascist Legacy. È stato realizzato nel 1989 e doppiato dal mio amico Massimo Sani, ma non è mai stato messo in onda in Italia finora».
Forse non abbiamo ancora fatto i conti con il nostro passato?
«No. Non vogliamo ammettere gli errori e i crimini fatti dal nostro paese. La persecuzione degli ebrei, per fare un esempio, viene spesso minimizzata come un fatterello secondario, dovuto all’assoggettamento a Hitler. Ma i bulgari si opposero strenuamente e difesero i loro cittadini ebrei: li hanno salvati tutti, tra cui i miei genitori e mio fratello maggiore. Così come i danesi. E la Danimarca e la Bulgaria erano occupati, l’Italia no.
Anche sulla questione delle foibe bisogna raccontare tutta la verità. I fascisti si macchiarono di crimini atroci anche prima dello scoppio della guerra (un nostro lettore ha scritto recentemente una lunga e dettagliata lettera a riguardo, ndr). Questo non giustifica e non può giustificare tutto quello che è successo dopo, ma bisogna ricordare tutto, non solo una parte».
Lei, che è agnostico ma conosce nel profondo la cultura ebraica, conosce un’infinità di Witze; ne raccontò uno anche al funerale del suo amico Umberto Eco. Ci racconta il primo che le viene in mente?
«Ve ne dirò uno proprio su questo argomento. In una stanza entra un gerarca fascista e urla: “Tutti quelli che hanno una madre ebrea escano subito”. E alcuni bambinetti se ne escono mestamente. Poi tuona: “Quelli che hanno il padre ebreo se ne vadano”. E altri bambini, con il loro cappotto, sgattaiolano fuori. Quindi alza ancora di più la voce e dice: “Tutti quelli che hanno entrambi i genitori ebrei escano immediatamente dalla stanza”. Rimangono tutti in silenzio, finché non si sente uno strano cigolio provenire da dietro la scrivania. Il gerarca si volta e vede il crocifisso che a balzelloni se ne esce dalla porta».
Cos’è che apprezza in Papa Francesco?
«Il suo è un messaggio chiaro, diretto, che trascende le differenze tra le religioni; dice pane al pane e vino al vino. Mi colpì fin da subito, da quando decise di chiamarsi Francesco ed esordire con un semplice buonasera. La sua enciclica ha il merito di affrontare un tema troppo importante per tutti noi, quello della difesa dell’ambiente. Io poi ho un bel rapporto con i cristiani: ho più amici preti che rabbini (scherza, ndr). Ebbi una grande amicizia con il cardinale Silvestrini, scomparso nell’agosto scorso.
E, tornando a Papa Francesco, apprezzo che abbia chiesto di scrivere la prefazione a Carlo Petrini, il fondatore del movimento Slow Food. Una persona estremamente in gamba con una grande forza di volontà: da Bra, un paesino sperduto nelle Langhe piemontesi, ha fondato un movimento mondiale».
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