Stanche e senza volto, le super infermiere dello screening
Dopo 14 ore di lavoro hanno prestato la loro opera gratuitamente per i prelievi ai 1100 cittadini. «Il mio sogno? Un letto e un cuscino»
Per comodità verrebbe da pensare, – un po’ luogo comune, un po’ neologismo – alla «meglio gioventù».
Ma sarebbe un errore perché Lucia, infermiera della pediatria di Cittiglio ha 60 anni suonati e dopo un turno di lavoro in ospedale si è “sparata“ decine e decine di prelievi con la tuta che tiene caldo, la mascherina e i guanti che obbligano a pochi, ma non meccanici movimenti.
Perché non si può sbagliare l’etichetta del campione, o saltare la disinfezione prima di far entrare l’ago della “farfallina“ nella vena del braccio durante lo screening sierologico che si è concluso oggi nella palestra di Cocquio Trevisago.
Non va bene neppure il termine abusato di eroe, o eroina, frutto di un’epica suggestiva che non tiene conto però della quotidianità – quella sì, eroica – di madri che portano avanti una famiglia con figli dopo 12,13, 14 ore di lavoro filato al Circolo, diventato ospedale «Covid», per poi continuare ancora coi prelievi, a titolo di volontariato.
«L’altra sera, stravolta, sono andata a fare la spesa prima di tornare a casa, ho saltato la fila dicendo di essere un’infermiera. Mi hanno guardata male, e presa in giro: “Pensa un po’, mo’ sono tutte operatrici sanitarie“, mi hanno detto dietro le spalle ad alta voce», racconta Elena della chirurgia di Cittiglio: «Se qualcuno vuol far cambio col mio lavoro, accomodatevi pure», ha ribattuto, tra silenzi e imbarazzo generale, prima di tirare diritto.
«Non avevo voglia di discutere. Dentro di me pensavo solo a qualche ora di riposo. Sognavo un letto e un cuscino dove sprofondare».
Tutto dopo aver garantito la sua opera volontaria per l’operazione di screening sierologico di Cocquio Trevisago.
Quattro giorni intensi di lavoro fra le provette con la collega Antonella, anche lei dell’ospedale di Cittiglio e anche lei precettata per il fronte del coronavirus, sempre a Varese dove interi piani dell’ospedale sono oramai destinati alla cura della brutta polmonite virale. Poi ancora Marina della pediatria, e Sara della terapia intensiva di Varese che torna verso casa nei dintorni di Gavirate ma allunga la strada per farsi 4-5 ore di prelievi alla palestra della scuola.
Mancano molti nomi ancora, ma le storie di sacrificio e dedizione per gli altri sono queste.
Si tratta di grandi testimonianze di cittadini senza volto con nomi che non si troveranno sui libri di storia ma sarà bene scolpire nel profondo della nostra memoria per la forza e il coraggio dimostrati.
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