Una bottiglia frantumata e tanto sangue: la strage iniziò così
Il racconto di Claudio Pozzi che si trovava nel settore Z dello stadio, quello travolto dall'ondata di hooligans che lasciò a terra 39 morti, nella tragica finale di Coppa Campioni 1985
Oggi – 29 maggio 2020 – ricorrono i 35 anni dalla tragedia dell’Heysel. Riproponiamo le testimonianze pubblicate dieci anni or sono (per questo troverete i riferimenti a “25 anni fa”) così come le avevamo raccolte allora. Un piccolo omaggio che riteniamo doveroso verso una delle più grandi tragedie del calcio italiano che, tra l’altro, ci toccò da vicino per la morte di un uomo di Taino, Giancarlo Bruschera, allora 34enne.
Quel 29 maggio del 1985 avevo 30 anni e da 25 anni le immagini che ho visto sono impresse indelebilmente nella mia memoria. Eravamo partiti con un pullman da Busto Arsizio con il Club Amici della Juve; in realtà avevamo perso le speranze qualche giorno prima quando ci dissero che i biglietti erano finiti, ma poi si liberarono alcuni posti nel maledetto settore Z e riuscimmo a partire. Dopo 15 ore di viaggio arrivammo nei pressi dello stadio attorno alle 16 e la prima cosa che notai erano gruppi di inglesi sdraiati nei prati attorno allo stadio già ubriachi. L’emozione per la partita, però, non ci fece soffermare troppo su quelle immagini: volevamo vedere la nostra Juve alzare la coppa e nulla più. L’umore era alle stelle, la giornata bella e noi juventini eravamo in tantissimi.
Quando ci avvicinammo allo stadio ricordo che la struttura dell’Heysel mi impressionò per quanto appariva vecchia e poco adatta ad una finale di Coppa dei Campioni. Si entrava da grandi portoni che immettevano alle scale, una volta percorse le quali si sbucava nella parte più alta dell’anello; da lì si doveva ridiscendere i gradoni per arrivare al proprio posto. Ero accompagnato da quattro amici e insieme ci siamo messi uno accanto all’altro: erano le 18 circa. Quella è l’ultima immagine normale che ho nella memoria, tutto il resto non aveva più niente a che fare con una partita di calcio.
Attorno alle 19 lo stadio cominciò a riempirsi e dal nostro settore vedevamo i settori dedicati ai tifosi del Liverpool pieni di hooligans scatenati che avevano cominciato a lanciare cori e slogan contro gli italiani. Notai subito che la rete che divideva i settori X e Y, dedicati agli inglesi, era del tutto inadeguata a contenere una delle tifoserie più agitate del mondo. Poi c’era un cordone di agenti più simili a vigili urbani che ai nostri poliziotti in tenuta anti-sommossa e infine noi del settore Z, la parte estrema della curva. Alla nostra destra c’era un muro – quello che poi crollò – che ci divideva dallo spazio vuoto prima della tribuna. (Nella foto la prima pagina della Gazzetta del 30 maggio: il numero di morti segnalato è superiore a quelli che ci furono, ovvero 39)
I primi lanci di bottiglie cominciarono a metterci sul “chi va là”: eravamo a circa 50 metri in linea d’aria e la maggior parte degli oggetti si fermava prima di noi ma realizzai che il peggio stava per arrivare quando una di queste bottiglie si frantumò sulla faccia di un tifoso alle nostre spalle. Sentimmo il suo urlo di dolore, ci voltammo e il sangue gli aveva già ricoperto il viso. La folla cominciò a spingere in quel momento. I tifosi inglesi saltarono la rete, superarono senza tanti problemi il cordone di polizia, invasero il settore Z e solo pochi tifosi juventini affrontarono questa orda barbara. La maggior parte, migliaia di persone, cominciò ad indietreggiare verso di noi e la pressione si faceva sempre più forte. In un batter d’occhio persi tre del mio gruppetto e rimasi solo con un altro ragazzo. Ci ritrovammo a ridosso di quel maledetto muro e con grande fatica riuscii a salirci sopra e a saltare giù, sotto di me c’erano 4-5 metri di vuoto. Non so nemmeno se la decisione di saltare la presi io o se fu la spinta di quella moltitudine di persone a farmi volare in basso. Anche il mio amico saltò ma si fece male ad un piede; nulla di grave per fortuna rispetto a quello che capitò a centinaia di altri tifosi.
Poco dopo eravamo fuori dallo stadio e non avevamo ancora realizzato cosa fosse successo. Sentivamo urlare, erano grida di sofferenza, lamenti terribili. Ci allontanammo di qualche metro per cercare di capire cosa stesse succedendo e soprattutto cercavamo gli altri tre amici che avevamo perso nella calca. Dopo un po’ cominciarono a uscire i primi feriti, sdraiati su transenne adibite a barelle o sui cartelloni pubblicitari usati allo stesso modo. Mi misi le mani nei capelli: prima uno, poi due, tre, quattro persone. Il viavai non finiva più. Sempre più preoccupati per i nostri amici rientrammo nello stadio perchè era chiaro che le regole erano saltate, infatti nessuno ci controllò all’ingresso. Avevamo saputo che all’altoparlante annunciavano i nomi delle persone che si erano perse e così riuscimmo a far annunciare quelli dei nostri amici.
Li ritrovammo nei pressi del nostro pullman e ci dissero che avevano camminato sui corpi di altre persone; in quel momento si fermò un’auto scura dalla quale l’uomo al volante ci chiese cosa stesse succedendo, dentro quell’auto scorgemmo la figura dell’avvocato Gianni Agnelli: «Vediamo uscire continuamente feriti – dissi all’autista – ci sono stati scontri con i tifosi inglesi». L’auto partì e sparì dietro lo stadio. Avevo perso le scarpe, me ne resi conto solo in quel momento. Rientrammo una terza volta nello stadio, sempre senza essere controllati e guardammo il secondo tempo di quella partita. Solo alla fine del match la percezione di quello che era successo si fece concreta e violenta: pensavamo ci fossero stati solo feriti ma dalla televisione dell’autista del pullman apprendemmo che c’erano state decine di morti. Il viaggio di ritorno fu silenzioso. Quella sera avevamo vinto la coppa ma avevamo perso molto di più: il senso di quello che avevamo fatto era sparito, non sapevamo come reagire di fronte ad una simile tragedia. Tornato a casa, a Oggiona Santo Stefano, tutti mi chiedevano di cosa avevo visto e per mesi quelle immagini mi perseguitarono; ancora oggi provo un profondo senso di smarrimento davanti ad una simile tragedia che non aveva senso allora quanto oggi, 25 anni dopo.
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