Senza pazienti covid le terapie intensive dell’ospedale di Varese
È stata un'esperienza molto dura quella del primario professor Cabrini e della sua squadra. Centodue i pazienti intubati in quattro mesi
Dopo quasi quattro mesi, la terapia intensiva dell’ospedale di Varese è “Covid free”. Oggi è stato dimesso l’ultimo paziente positivo al coronavirus: « Si trattava di un paziente con patologie diverse gravi ma che era risultato positivo al tampone. L’ultimo caso di polmonite da covid è stato trasferito un paio di settimane fa».
Si chiude un ciclo, quindi, nel reparto diretto dal professor Luca Cabrini che in questi mesi ha visto espandere i letti di cure intensive fino a 45 posti, collocati anche in altri reparti come la terapia intensiva cardiochirurgia o neurochirurgia o in spazi “di fortuna” ricavati nelle sale operatorie: « Abbiamo lavorato immersi nel tornado fino alla fine di marzo – ricorda il primario – in coordinamento costante con le altre 80 terapie regionali. Ogni giorno cercavamo di aumentare di qualche letto la nostra capacità. Non so nemmeno io come abbiamo potuto compiere questa impresa. Vivevamo nella paura di non farcela: il terrore era che il virus mettesse in ginocchio Milano. Eravamo già al limite: non avremmo retto al dilagare della malattia nella metropoli».
Oggi, superata la fase critica, il professor Cabrini inizia a rielaborare quanto lui e la sua equipe, allargata a medici, infermieri, oss di altri reparti e ospedali oltre a tecnici, farmacisti e ingegneri, hanno compiuto in questi mesi: « Quello di Varese è uno tra i maggiori ospedali lombardi. Avevamo il dovere di dare una mano a tutto il sistema regionale. I presidi più piccoli, quelli delle aree maggiormente colpite, sono stati letteralmente travolti e noi abbiamo lavorato al loro fianco. È stata un’esperienza anche emotivamente molto dura. Ogni paziente era una storia di affetti e dolori che ci vedeva naturalmente coinvolti. Persone che salivano nelle ambulanza e scomparivano alla vista dei propri famigliari per ricomparire dopo lungo tempo, con una videochiamata dal reparto di Varese: lo stupore di ritrovarsi lontano da casa in modo inatteso».
In quei 5 reparti di terapia intensiva Covid si sono vissuti giorni difficili: « Il nostro è un reparto di cure estreme, quando nessun altra cura sembra funzionare – spiega il professor Cabrini – Le prime tre settimane sono state molto dure perchè non si registravano progressi. Tutti i pazienti rimanevano sedati e agganciati al respiratore. Andiamo avanti per tentativi, coordinandoci a livello regionale, scambiandoci opinioni e idee, adottando protocolli che via via venivano condivisi. Il ritmo dei ricoveri quotidiani era sempre più intenso: fino al picco del 31 marzo, con tutte le terapie intensive sature. Poi, fortunatamente, il trend si è invertito, abbiamo registrato progressi nei nostri pazienti, dimesso malati che erano migliorati. Il primo paziente lo abbiamo spostato dopo tre settimane di terapia intensiva».
La mortalità, all’interno di questo reparto, è la più alta proprio per la gravità delle condizioni. Dei 102 pazienti curati, sono 56 quelli che hanno superato la fase critica: « Tutto il personale ha lavorato oltre le proprie potenzialità. È stato un momento di grande maturità professionale che ci ha coinvolto tutti, costringendoci a collaborare, tra reparti diversi e persino tra ospedali diversi. E credo che questo sia il lato migliore della grave crisi che abbiamo affrontato. Oggi, però, dobbiamo rientrare nella routine, in una quotidianità che è già tornata a essere la stessa del periodo pre covid. I nostri letti di terapia intensiva sono tutti pieni, circa un terzo è occupato da vittime di traumi e incidenti in auto, in bicicletta o in moto. Non è semplice riprendere come se nulla sia stato, ma so bene che è la nostra maggiore sfida oggi. Sono certo che ci porteremo dietro l’esperienza positiva della collaborazione e della conoscenza che ci permetterà di superare diffidenze o rivalità possibili negli ambienti ospedalieri. Il personale è comunque stanco e deve rientrare nella vecchia dimensione. Gradualmente torneremo come prima, anche se migliori».
Oggi il pericolo sembra passato: si è passati dai 100 ricoveri di marzo all’uno o due di questi giorni. Ma la Lombardia resta la regione con la casistica maggiore. E se davvero dovesse ritornare una seconda ondata? « Saremmo più pronti. Sappiamo che i dispositivi di sicurezza e i percorsi tutelano davvero il personale. Sembra un discorso egoistico ma è importante che il personale lavori sereno e, soprattutto, non si ammali e finisca in quarantena. Inoltre abbiamo idee più chiare su protocolli e assistenza. Nei magazzini abbiamo dispositivi e macchinari necessari come ventilatori che a marzo non si trovavano. Sappiamo riorientare i reparti e come bloccare le altre attività. Insomma, non ci troverebbe impreparati. Ma speriamo che non ci trovi più».
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