Il simbolo della pandemia è un uomo con il sorriso sotto una mascherina pulita
Alberto, che lavora nella Polizia locale, racconta la storia di due ragazzi senza fissa dimora e della relazione che si è istaurata tra loro
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Di seguito la storia di Alberto.
Durante il periodo di massima limitazione agli spostamenti, notare persone estranee alla comunità diviene più semplice.
Se fai il mio mestiere (l’Ufficiale della Polizia Locale) e vai a lavorare in treno in un altro comune, non puoi evitare di fare caso a due giovani che scendono dal convoglio alla tua fermata e si dirigono in paese. Così, diviene una procedura quasi automatica chiamare un collega e seguirli, per verificare la loro “attinenza” con il territorio. Li troviamo nel parcheggio di un supermercato, con le biciclette che gli avevo visto spingere lungo la strada; non tanto mezzi di locomozione, quanto utili a sostenere pochi effetti personali. Uno, si infila la mascherina e si mette diligentemente in coda, mentre il secondo, durante l’attesa, inizia a girare tutto il piazzale, molto ampio.
Non capiamo subito cosa stia facendo, ma diviene palese in breve. Siamo su un’auto senza insegne e senza lampeggianti, non ci ha notati. Lo osserviamo recuperare numerose bottiglie di birra, abbandonate certo da qualcun altro e, altrettanto certamente, del tutto non rispettoso delle norme sul confinamento.
Lo guardiamo, mentre le porta al vicino contenitore pubblico dei rifiuti e le getta con attenzione. Avviciniamo quel ragazzo dal sorriso simpatico e gli chiediamo dove sia residente… I periodi di crisi toccano tutti ma, chi ha davvero poco, rischia di perdere anche il minimo. Così, dobbiamo confrontarci con un’evidenza inoppugnabile: non puoi intimare il rientro al domicilio, a chi un domicilio non ce l’ha!
Ci dice che la comunità in cui gli hanno trovato un posto, dove avrebbe dovuto entrare in quei giorni, ha bloccato gli accessi per non rischiare il contagio degli altri ospiti. Per le medesime ragioni, i letti nei dormitori sono pressoché azzerati.
A scaglioni, non tutti i giorni, riescono ad avere qualcosa nelle mense. Mi racconta che l’amico con cui è arrivato percepisce il reddito di cittadinanza e che, con quello, mangiano in due. Nelle stazioni maggiori, non si possono fermare perché vietano ogni permanenza.
Mi confessa che, quando non trovano di meglio, dormono nella nostra. Anche il secondo, arriva e si presenta. Ambedue estremamente educati e rispettosi. Quello che aveva fatto un poco di rifornimento, piega con cura la mascherina che aveva in volto. Mi fa capire essere l’unica che posseggono. È, effettivamente, il periodo in cui si trovano a fatica e, da oggetti di uso quasi banale, sembrano divenuti uno status symbol. È, però, indispensabile per accedere a qualsiasi luogo.
Il primo, ha sul collo una sciarpa spessa, che sostituisce l’accessorio ma che poco si adatta alla giornata calda primaverile.
Li invito a passare dal Municipio, facendo loro presente che noi, qualche scorta, l’abbiamo. Arrivano puntuali, ma non suonano il citofono (di solito lo pigia chiunque, per qualunque ragione non urgente, a qualunque ora, indipendentemente dall’orario affisso nonché da quale sia l’ufficio con cui vorrebbe comunicare); restano pazientemente in attesa, nel piazzale antistante. Li raggiungo io, con un sacchetto di plastica. Dentro, ho messo quattro mascherine, due di tipo chirurgico e due lavabili. Glielo spiego ma, mentre ancora parlo, il ragazzo che raccoglieva bottiglie si sfila la sciarpa e inforca alle orecchie una delle due chirurgiche. Mi viene la tentazione di far notare come sarebbe stato meglio usare la lavabile, perché quella dovrebbe essere utilizzata una volta o poco più… ma taccio.
Forse mi sbaglio, ma leggo nel suo gesto una voglia di normalità, di avere, finalmente, qualcosa di “giusto”. Sono quasi in imbarazzo… chiedo loro se amano il pandoro. Avevo scoperto esserne rimasta in ufficio una confezione. Se ne vanno, con il dolce natalizio che penzola dalla canna di una delle bici, seguiti dal mio sguardo, mentre mi domando se sono riuscito a trasmettere loro, in modo delicato, che se dovessero trovarsi davvero alle strette, a questa porta potranno bussare…
Il dubbio è destinato a rimanere. Non saprò mai quale vicenda della vita abbia portato i due giovani a scegliere di non condividere più la medesima strada. So però che doveva essere solo, quello dei due che ricorderò come Il Raccoglitore di Bottiglie, quando ha preso la sua decisione. Se l’è portato via qualcosa di più terribile del virus. Quel baratro che, a volte, si spalanca nell’animo umano e può inghiottire il desiderio di vivere.
Nella mia memoria, di persona che ha attraversato la Provincia per tutto il periodo Covid19, sei giorni a settimana, il simbolo della pandemia resterà un uomo, poco più che ragazzo, mentre nasconde il sorriso sotto una mascherina pulita.
Alberto
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