Il mio 8 settembre 1943, tra soldati spogliati dell’uniforme e una pistola, all’improvviso

Di Ambrogio Vaghi

8 settembre 1943 armistizio soldati milano foto da milanoneisecoli

Caro direttore

Questa potrebbe essere un po’ la storia di una pistola: del suo “prima” e del suo “dopo” l’8 settembre.
L’armistizio è stato firmato. Tutti a casa dunque. Milano è una crocevia obbligato per diecine e diecine di migliaia di sbandati del Regio Esercito. Anche i tedeschi lo sanno, naturalmente. E organizzano la rappresaglia. Del resto non devono neppure venire da lontano: sono già lì, da tempo, nelle estreme periferie e nei Comuni della cintura milanese, molto numerosi, con le loro batterie antiaeree, con i loro cannoni da “88”. Spostare queste forze rapidamente per controllare i punti nevralgici della città deve essere un gioco da ragazzi. (foto da “Milanoneisecoli” – Soldati italiani smobilitano in via Mercanti)

L’immensa Stazione Centrale viene dunque subito presidiata dalle truppe germaniche. E per i primi gruppi di nostri militari che scendono dai treni, ancora in uniforme dell’esercito, per proseguire il viaggio verso casa, la sorte è segnata. Rastrellamenti. Per loro sono pronti i carri bestiame: deportazione in Germania e lavoro coatto. Quanti sogni e speranze infrante in pochi attimi: un sereno ritorno in famiglia… la fine della guerra, la pelle salvata! Per tanti iniziava invece un nuovo calvario, e forse la fine.

Le notizie, portate dalle misteriose antenne di “radio-scarpa” si diffondono in un baleno: «alla Stazione Centrale i tedeschi fanno rastrellamenti»… «guai a chi viaggia in divisa militare»…. «aiutiamo i soldati a cambiarsi gli abiti»… «nascondiamoli». Anche i ferrovieri sono in allarmi e avvertiti.
Come d’incanto, tutti i treni, poco prima di entrare in Centrale, si fermano nel tratto tra Lambrate e Turro. Sono convogli stracarichi e vengono dall’Italia centro-meridionale, dal Veneto, dalla Liguria. E, mentre ancora rallentano, si aprono repentinamente tutti gli sportelloni delle vecchie carrozze di 3°.

Da essi schizzano con rapidità incredibile diecine, centinaia di soldati in uniforme. Si rovesciano lungo i terrapieni, con i loro tascapani, con i loro zaini, con qualche povera valigia di fibra. Poi si disperdono nei cortili delle case di periferia, nelle osterie. Tutti cercano abiti “borghesi”. Qualcuno è disposto anche a pagare o ad offrire qualcosa in cambio. Ma i milanesi, pur con i loro “guardaroba “ stremati dalle restrizioni di oltre 3 anni di guerra, non si fanno pregare. Dagli armadi e magari dalle soffitte escono vecchi capi d’abbigliamento di ogni genere! E’ uno spettacolo meraviglioso di solidarietà umana e patriottica.

Assisto all’arrivo di un’altra ondata di sbandati. Sono in mezzo a loro nel cortile della vecchia casa di ringhiera dove sono nato, lungo la ferrovia. E appunto dalle ringhiere piovono vecchie giacche, pantaloni, camicie, scarpe rotte ma ancora usufruibili. Il Bertelli, il Fumagalli, il Bianchi, il Massera, il Ceresa, ora sono nelle case vicine a far raccolta di altri indumenti. Quelli offerti qui sono ormai insufficienti. Intanto i soldati che hanno racimolato qualcosa di adattabile, si ammucchiano sotto la tettoia del grande lavatoio comune in fondo al cortile. Per cambiarsi si spogliano in promiscuità, senza problemi.

«Non c’è un posto un po’ appartato per favore?». La domanda la rivolge a mia madre un timido tenentino dalla divisa impeccabile di ufficiale del Regio Esercito. Anche lui ha il problema di lasciare al più presto un’uniforme ormai troppo pericolosa. Non dopo qualche esitazione, mia madre lo fa accomodare nel nostro retrobottega: una stanza a metà tra il magazzino e uno studiolo, con l’ottomana e la mia scrivania di studentino.
Nel grande trambusto, per qualche tempo nessuno più pensa al giovane tenente. Ora dentro il lavatoio del cortile non c’è più nessuno: è rimasto soltanto un gran mucchio di panni militari: pantaloni, fasce, giubbe, cinturoni, pancere, pezze da piedi, zaini. Una mezza fureria insomma.

Torno al retrobottega. Sparito l’ospite, insalutato, sono rimasti i suoi… ricordi. Due bellissimi pigiami di seta, qualche camicia, qualche effetto personale. Roba bella, di lusso che mi farà comodo. Poi, a terra, alcuni biscotti e una gavetta piena di marmellata. «Guarda un po’, si trattava bene il giovanotto» penso tra me. «Ma scappare con la marmellata, poi!».
Sollevo la gavetta, deciso a buttarne il contenuto: «Ma che peso! Qui c’è qualcosa di strano». Rovescio il tutto e, adagiata sul fondo, che ti trovo? Una pistola Beretta cal. 9 con un caricatore di riserva e alcune pallottole!
Fu così che conquistai senza lotta quella che più tardi doveva essere la mia prima pistola di giovane combattente per la libertà.

Ambrogio Vaghi

Damiano Franzetti
damiano.franzetti@varesenews.it

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Pubblicato il 05 Settembre 2020
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