“La mafia c’è e spetta a ciascuno di noi combatterla“
Due donne interpreti della lotta alla criminalità organizzata in provincia di Varese: la moglie del caposcorta di Falcone Tina Montinaro e la procuratrice della Dda Alessandra Dolci
«Dalla mafia si esce solo in due modi: o morti, o da collaboratori di giustizia».
La frase è del procuratore aggiunto coordinatrice della Dda di Milano Alessandra Dolci, a Laveno Mombello per un convegno sulla legalità.
Una frase che ricorre nei suoi interventi ma come un passe-partout va ripetuta per chiarire subito di cosa si sta parlando: mafiosi che collaborano confidenzialmente coi carabinieri e vengono assassinati dagli stessi parenti «perché è sangue nostro, e del sangue nostro ce ne occupiamo noi».
Altro esempio per far capire che ogni ragionamento su criminalità organizzata stile “416 bis“ deve tenere conto di questi elementi: familiarità, regole, violenza e antistato. Anche quando si parla di ergastolo e condizioni di chi è al carcere duro, il 41 bis, soprattutto alla luce di “scivoloni“ istituzionali come la circolare di luglio del Ministero ella giustizia che ha di fatto consentito a diversi detenuti – anche ai mafiosi – di poter usufruire della carcerazione domiciliare per la paura del covid.
Ed ecco l’utilità delle premesse: «Un mafioso che esce dal carcere è un fatto che produce un segnale chiaro per gli affiliati, per il contesto territoriale in cui ha operato: “Sono qui, sono fuori, comando ancora io”, sembra significare la scarcerazione per un detenuto sottoposto al 41 bis», ha spiegato il magistrato che da oltre vent’anni si occupa di lotta alla criminalità organizzata, scandendo bene le parole di fronte a un pubblico di giovanissimi all’istituto Galileo Galilei che ogni anno ospita la giornata della legalità e quest’anno il tema era proprio un momento di riflessione e confronto sullo scottante e attualissimo tema del rapporto fra pandemia e scarcerazioni di detenuti per attività mafiose soggetti al regime del 41-bis.
Presente il questore di Varese Giovanni Pepè, presenti alti gradi delle forze dell’ordine oltre ad una vera e propria testimonial della lotta senza quartiere alla mafia, Tina Montinaro, moglie di Antonio Montinaro, capocorda del giudice Giovanni Falcone a bordo della prima auto che precedeva quella del magistrato, saltato in aria il 23 maggio del 1992 a Capaci, fuori Palermo: gli attentatori fecero esplodere un tratto dell’autostrada A29 alle ore 17:57, mentre vi transitava sopra il corteo della scorta con a bordo il giudice, la moglie e gli agenti di Polizia, sistemati in tre Fiat Croma blindate. Oltre al giudice, morirono altre quattro persone: la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Ventitré i feriti, fra i quali gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.
«Ricordatevi sempre cos’è la mafia, fatta di gente che in quel anni a Palermo uccise 5 mila persone, anche nelle camere della morte di cui era costellata la città: persone uccise, sciolte nell’acido coi bidoni che finivano poi in fondo al mare. Oggi la mafia è un fenomeno ben diverso, fatta di persone preparate e a volte insospettabili che sono in mezzo a voi, anche a voi ragazzi. Spetta a tutti noi isolare chi crede nell’illegalità attraverso il comportamento di ciascuno. Lo si può fare in ogni momento anche attraverso il voto, che non deve essere un’occasione di scambio, per avere un vantaggio, ma un momento in cui scegliere chi ci governa».
La giornata è stata preceduta dai saluti del giurista Leonardo Salvemini che ha spiegato importanza del catetere retributivo e afflittivo della pena, considerazione che ha dato il là ad altre considerazioni interessanti sulla necessità di cambiare il sistema carcerario, dove oggi il tasso di recidiva – cioè la propensione a commettere reati analoghi una volta scontata la pena – è del 70%, mentre per forme detentive alternative alla carcerazione, specialmente se unite ad un regime lavorativo, la recidiva scende al 20%.
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