15 novembre 1943, sul monte San Martino la prima battaglia della Resistenza
Fu la prima battaglia dei patrioti al Nord, condotta dai militari del "Gruppo Cinque Giornate" contro le Ss e i fascisti
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Tra il 15 e il 18 novembre 1943 veniva combattuta sulle Prealpi varesine a ridosso del confine con la Svizzera la battaglia del San Martino, una delle prime vere battaglie della Resistenza all’occupazione nazifacista. Un sacrificio di grande valore morale, ma anche una vera azione militare.
La battaglia prende il nome dal massiccio montuoso sopra la Valcuvia: qui si era insediato dopo l’armistizio dell’8 settembre il “Gruppo Militare Cinque Giornate Monte di San Martino”, formazione strettamente militare comandata dal colonnello dei bersaglieri Carlo Croce.
Rimasto fedele al giuramento e al legittimo governo italiano, Croce concentrò sul monte circa 170 uomini, intenzionato a “combattere i tedeschi fino alla loro cacciata dall’Italia”.
Il nome della formazione aveva un sapore risorgimentale e il motto “Non si è posto fango sul nostro volto” mostrava l’intenzione di cercare un riscatto morale per l’Italia dopo il disastro dell’8 settembre, quando l’esercito regio si era liquefatto di fronte alla notizia dell’armistizio e all’invasione tedesca.
Al primo nucleo di soldati si aggiunsero poi diversi giovani antifascisti da Milano e località vicine (ad esempio un gruppo da Cinisello Balsamo), molti di estrazione operaia, desiderosi di combattere. Da Milano arrivarono anche cinque vigili del fuoco. Il più giovane dei partigiani che avevano scelto volontariamente era Elvezio Rossi, diciassettenne di Milano, anche se poi si aggiunse il 14enne locale Giampiero Somaini. C’erano anche un ufficiale americano e uno francese.
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I contatti con Milano erano continui, dalla città arrivò anche un camion recuperato dai vigili del fuoco antifascisti. I partigiani effettuarono diverse puntate nei dintorni per necessità logistiche, recuperando materiale nelle caserme di Luino e Laveno Mombello. Presero anche contatti con la popolazione, si guadagnarono il sostegno dei preti della zona, in particolare don Antonio Gatto di Duno, il paese che più di tutti collaborò con i partigiani-militari.
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Già a ottobre ci furono due scontri casuali con pattuglie tedesche, che provocarono vittime agli invasori.
La battaglia
L’attacco iniziò il 15 novembre, dopo un rastrellamento di ostaggi in Valcuvia il giorno precedente: i tedeschi contavano su quattro Compagnie del 15° reggimento SS-Polizei (specializzato in guerra antipartigiana e impegnato negli anni precedenti in orrendi massacri di ebrei in Bielorussia), oltre a fascisti collaborazionisti della Rsi e unità della Zollgrenzschutz, la polizia di frontiera.
La I compagnia era schierata nelle gallerie inferiori a guardia delle strade di Mesenzana e Cassano; la Compagnia Comando fu posta in Vallalta a difesa delle gallerie alte, dei depositi e della strada dal San Michele; la II compagnia fu disposta a protezione della caserma, delle fortificazioni e delle trincee che controllavano le strade Cuvio-Duno e Arcumeggia-S. Antonio. Ogni gruppo aveva anche mitragliatrici Breda 38, con un buon quantitativo di munizioni.
Gli scontri furono piuttosto violenti e durarono tre giorni. Già dal primo giorno i tedeschi impiegarono anche l’aviazione, per bombardare il massiccio dove i militari-partigiani erano ben trincerati.
In tutto i patrioti ebbero 38 morti (nella foto di apertura: la SS Polizei e la Zollgrenzschutz catturano alcuni patrioti che cercavano di fuggire dall’accerchiamento), i tedeschi e i fascisti una decina. Alcuni dei partigiani si salvarono ma furono deportati, in parte morirono. Centinaia di abitanti dei paesi delle valli – Duno, Arcumeggia, Mesenzana – furono come si diceva arrestati provvisoriamente. Due furono le vittime civili, un ragazzo e un’anziana.
Al termine della battaglia i tedeschi fecero anche saltare in aria con la dinamite la chiesetta sulla cima del monte, poi ricostruita e divenuta simbolo di quella eroica, prima battaglia.
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Il bilancio della battaglia e la memoria
A lungo la battaglia del Monte San Martino è stata considerata una sconfitta totale: fin dagli anni Cinquanta Roberto Battaglia sottolineò l’errore della difesa fissa scelta dal colonnello Croce. Giorgio Bocca nella sua Storia dell’Italia partigiana parlò del San Martino come della “raccolta degli errori che un gruppo partigiano deve evitare”.
Le perdite furono certamente pesanti, ma una gran parte della formazione riuscì comunque a sganciarsi all’ultimo attraverso le gallerie e i camminamenti della linea Cadorna e a riparare in Svizzera, come previsto dal colonnello Croce.
Molti patrioti fuggirono poi dall’internamento nella Confederazione e ripresero la lotta, come il giovane Sergio De Tomasi, che diventerà poi instancabile narratore della Resistenza. Anche il comandante Croce rientrò in Italia: nel luglio 1944 fu catturato in Valtellina e torturato a morte nel carcere di Bergamo.
Dal San Martino alla Liberazione: venti mesi di Resistenza
La zona dell’Alto Varesotto, dopo quell’episodio che impressionò molto la popolazione civile, divenne terreno poco fertile per la Resistenza, con gruppi di ridotte dimensioni (poi stroncati nell'”ottobre di sangue”).
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Alla vigilia della Liberazione nuovi reparti furono impiantati nel Luinese per iniziativa della Flaim, la divisione partigiana di base nell’antistante area intorno a Verbania: furono questi battaglioni che poi liberarono l’Alto Varesotto nei giorni tra 23 e 35 aprile e diedero manforte alla 121a Brigata d’assalto Garibaldi “Walter Marcobi” a Varese.
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In merito alla battaglia di SanMartino ho qualche ricordo indelebile , dal luglio 1943 la mia famiglia si era trasferita sfollata a Cuveglio in via Milano, mio papà che lavorava presso il Comune di Milano come impiegato , veniva a Cuveglio quando era possibile dato il periodo dopo l’8 settembre , mi ricordo che nei giorni della battaglia mio padre era riuscito ad arrivare alla sera verso le 22,00 a Cuveglio dopo aver camminato a piedi da Laveno , aveva appena iniziato a mangiare una scodella minestra che abbiamo sentito dei colpi fatti con un calcio di fucile alla porta , sono entrati dei soldati tedeschi e miliziani fascisti e hanno portato via mio papà , facendo quella notte un rastrellamento e mettendo tutti quelli presi all’interno della chiesa ,tutte queste persone sono rimaste rinchiuse per 3 giorni ,poi grazie all’intervento del Parroco e di altre autorità finalmente sono state liberate altrimenti avrebbero potuto essere inviate in campi di concentramento.Nel 1946 siamo ritornati a Milano. I ricordi di quei colpi di fucile alla porta me li ricordo ancora oggi che ho 84 anni. Gilberto Garavaglia
Grazie di questa ulteriore testimonianza “di prima mano” sul rastrellamento di ostaggi