Nel reparto di Pneumologia, dove i malati di covid tornano a respirare: “Siamo più pronti ma più spaventati”

Nel reparto di pneumologia dell'Ospedale di Varese si curano le polmoniti più gravi causate dal covid. Vi portiamo a vedere cosa succede in quelle stanze

Se c’è una cosa per cui è famoso il covid è la grave forma di polmonite che può causare. Ed è al secondo piano del monoblocco dell’ospedale di Varese che si curano le peggiori. Qui, il reparto di pneumologia è stato ormai riconvertito completamente per i pazienti di Sars Cov-2 più gravi, quelli che appunto hanno sviluppato le insufficienze respiratorie più preoccupanti. E i 46 letti sono purtroppo sempre pieni.

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«Questo è un reparto ad alta intensità di cura che è stato riconvertito pienamente per i casi covid -spiega la primaria Cinzia Gambarini-. Oggi i nostri malati sono prevalentemente maschi e in questa tornata abbiamo persone anche molto giovani, dai 30 anni in su. I pazienti che vengono dimessi ci danno la forza per andare avanti ma purtroppo abbiamo già dovuto trasferirne alcuni in terapia intensiva mentre altri sono deceduti». Qui lo staff medico e infermieristico -con il supporto di anestesisti e chirurghi di altri reparti- è abituato a lavorare con questa tipologia di patologie, ma la seconda ondata della pandemia è molto complicata: «Siamo più pronti ma anche più spaventati perchè sappiamo esattamente a cosa andiamo incontro». Da un lato conoscendo di più il virus le terapie, i protocolli e le cure sono più rodati ma dall’altro tutti sanno che la battaglia sarà lunghissima.

«I pazienti stanno arrivando in numero molto molto alto -dice la coordinatrice degli infermieri del reparto, Debora Angelonomi- e noi curiamo tutti con impegno e dedizione ma anche con altrettanta difficoltà perchè c’è un turnover di malati molto alto che nella prima ondata non c’era e i posti letto sono sempre più richiesti».

L’azienda ospedaliera ha infatti riconvertito e continua a lavorare per trovare nuove risposte alla crescente domanda di assistenza anche perchè i tempi di degenza si allungano: oltre alla cura c’è la riabilitazione per recuperare respiro e capacità fisica: già da marzo qui lavora un gruppo di fisioterapisti respiratori che hanno il compito di agevolare la “pulizia” dei polmoni ed aiutare i pazienti a non perdere la capacità muscolare.

Nella pneumologia covid dell'ospedale di Varese

Non certo una cosa facile, quando senti l’aria che viene meno. La colonna sonora che riecheggia in tutto il reparto è quella dell’ossigeno che esce dai tubi nei muri e viene soffiato nei polmoni dei malati. Qui tutti o quasi hanno bisogno di un aiuto per respirare e l’occhio cade continuamente verso il monitor che indica la saturazione del sangue. «La guarigione di ogni paziente segue un percorso diverso ma è bene sapere che tutti possiamo venire contagiati» dice la dottoressa Anna Facchini mentre entra nella stanza in cui è ricoverato anche Emanuele, 30 anni. «Io non so il momento in cui ho preso il virus -racconta Emanuele-. Mi ricordo che un venerdì sera ho iniziato a sentirmi poco bene, ma ho pensato fosse un po’ di stanchezza. Poi la febbre che non scendeva e alla fine l’ambulanza che mi ha portato in ospedale e mi hanno ricoverato».

Nel letto accanto al suo c’è Enzo Benedusi, il sindaco di Cuvio, che invece ha un sospetto su come ha fatto a contagiarsi. «Tutta la mia famiglia ha avuto qualche problema con il Covid -dice, rilanciando uno degli appelli più importanti-: dobbiamo capire di stare attenti anche con i parenti, i figli e i nipoti. Non è facile, ma è davvero necessario». Un contatto che adesso per loro, con le visite ovviamente sospese, può avvenire solo attraverso i cellulari che tutti hanno sul comodino. Una solitudine dolorosa ma necessaria e alleviata il più possibile dal personale sanitario: professionisti che sanno che oltre a condurre il percorso di cura sono anche gli unici contatti di uomini e donne spaventati nell’affrontare una difficile malattia.

Nella pneumologia covid dell'ospedale di Varese

Un ruolo che affrontano con grande concentrazione. Ogni gesto accurato della vestizione accompagna la ricerca della forza mentale e interiore per far fronte alla complessità che li attende: da una parte i pazienti con la loro paura della malattia e la grande solitudine, dall’altra la richiesta pressante di trovare nuovi spazi per ammalati che attendono di essere curati.

Un lavoro nascosto, quello che avviene tra i muri degli ospedali, ma che oggi deve fare i conti con chi minimizza e chi taccia di allarmismo o terrorismo. «Questo è il nostro lavoro e lo facciamo al meglio -puntualizza Debora Angelonomi- ma siamo contenti se qualcuno ci chiede cosa stiamo vivendo qua, senza allarmismi o senza spaventare nessuno ma riportando esattamente la realtà dei fatti in questo momento. Una realtà che non è quella dei deserti in tutti gli ospedali che si sente dire in giro. Non è proprio così ma è una realtà purtroppo in continuo aumento».

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Marco Corso
marco.corso@varesenews.it

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Pubblicato il 07 Novembre 2020
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