Il museo delle barche d’epoca e quelle “tinche“ perdute
Il progetto di uno spazio espositivo negli ex magazzini della stazione delle Nord evoca ricordi che si intrecciano fra storia e letteratura
Mastri carpentieri, e storie di lago e burrasche, di quando il Verbano era l’autostrada blu su cui far arrivare le merci a Milano: per raccontare tutto questo, fra legno e acqua ci sarà un museo.
Si chiamerà, non a caso, “Officine dell’acqua” e verrà ospitato nel retro della stazione ferroviaria delle Nord a Laveno Mombello: un luogo dedicato alle imbarcazioni d’epoca che ha già molto da raccontare a partire da maestri d’ascia e tradizioni artigiane che sul lago hanno sempre trovato terreno fertile.
Una storia che non si ferma alle nostre latitudini ma che invece parte da lontano, dai fiordi attraversati delle navi vichinghe e che col nuovo secolo – il Novecento – arrivarono sul Lago Maggiore sotto forma di barchini per restarci, assieme al piacere di veleggiare o navigare nelle non sempre tranquille acque di casa nostra. Così la notizia della realizzazione del museo delle imbarcazioni d’epoca a Laveno Mombello con annessa fucina artigiana dove insegnare ai giovani come tagliare e sagomare il legno che diventerà chiglia (le lezioni partiranno nel 2022) ha fatto drizzare le antenne agli appassionati di questo genere che trovano nell’associazione “Vele d’epoca Verbano“ il punto di partenza di un’avventura con uno spazio dedicato alle imbarcazioni d’epoca, anche di quelle “lancette“ di tradizione inglese realizzate proprio con le antiche tecniche scandinave.
Sono diversi anni che questa realtà sta cercando spazi per un progetto metà area espositiva e metà laboratorio di nautica e che ora sembra aver trovato casa negli ex magazzini delle Ferrovie, area di oltre 1300 metri quadri in posizione d’oro: stazione, a due passi da un parcheggio da 500 posti (Gaggetto), e in faccia all’imbarcadero.
Ferro, acqua e gomma, tutto quello che riguarda i trasporti a distanza di pochi metri, come in una – metaforica ma non troppo – cerniera che ha nel movimento il suo leitmotiv.
E scartabellando fra le pagine web dell’associazione ci si rende conto che già esiste un progetto in essere portato avanti da “Vele d’epoca Verbano“ per ridare vita ad una barca che si trovava in fondo al mare e oggi riportata in superficie. La barca si chiama “Tinka” (foto sopra) e attira l’attenzione di chi si intende di storie di lago, e poi vedremo il perché. “Tinka fu progettata da Maurice Griffiths (disegno n° 149b) costruita in mogano (west african mahogany) chiodato in rame su struttura in rovere presso i cantieri Staniland & Co Ltd. (n°207) a Thorne nello Yorkshire nel 1951“, si legge nel sito. La barca affondata in Inghilterra e acquistata da un italiano venne portata in Sardegna per un restauro e dopo altre vicissitudini affondò di nuovo al porto vecchio di Genova. Ora, dopo altri lavori di recupero, l’imbarcazione è stata scelta come “ammiraglia“ dell’associazione e servirà come laboratorio per chi si vuole avvicinare alle attività di carpenteria con le indicazioni e la stretta sorveglianza di personale qualificato», spiegano sul sito dell’associazione.
Ma il colpo di scena letterario arriva, certamente per caso e assonanza, sfogliando uno dei testi sacri del grande narratore lunense di lago, Piero Chiara, che nelle prime pagine del meraviglioso “La stanza del vescovo” riesce a far incontrare i due personaggi principali del romanzo proprio di fronte a una barca, al porticciolo di Oggebbio «in un giorno di estate del 1946».
La barca, ça va sans dire, si chiamava “Tinca” «una barca da diporto con fiocco e randa a picco», con un nome del genere «forse perché è panciuta e tozza come la tinca», dice nel libro il proprietario dell’imbarcazione in una battuta che somiglia molto a quelle iniziali della pellicola realizzata da Dino Risi nel 1977 sul Lago Maggiore con Ugo Tognazzi (nella foto, con l’attore Patrick Dewaere nel ruolo di Marco Maffei, il proprietario dell’imbarcazione) e una splendida quanto malinconica Ornella Muti e che trae spunto proprio dalla narrazione chiariana.
Due barche con nomi che si somigliano, uno di casa nostra e l’altro dai toni decisamente più nordici ma che hanno scelto le stesse acque per navigare fra storia, fantasia e realtà.
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