Serafino e i fratelli alpini che si salvarono insieme nella ritirata di Russia
Il 26 gennaio 1943 le penne nere combattevano a Nikolaewka: l’ultima battaglia per tornare a casa e farla finita con la guerra. C’era anche Serafino Maffenini: uscì dal disastro con "sedici fratelli" e nel dopoguerra fu il 'vecio' degli alpini di Gallarate
«Sa, sior tenente, la mia batteria sul fronte russo era un po’ speciale: eravamo sedici fratelli, tutti insieme in batteria».
Serafino Maffenini, da Teglio (Sondrio), la raccontava così, con un tono divertito. Dalla ritirata di Russia – la più grande tragedia italiana nel Novecento – tornarono a casa «in sedici, tutti quanti»: affrontarono insieme anche il 26 gennaio 1943, il giorno di Nikolaewka, quando gli alpini riuscirono ad aprirsi la via per tornare a casa.
Serafino era un artigliere del 2° Reggimento della Divisione Tridentina, l’unica divisione alpina che nella ritirata riuscì a mantenersi unita e in grado di combattere, affrontando tanti scontri con l’esercito sovietico.
E unito seppe mantenersi in particolare il gruppo di Maffenini, la 32a Batteria del Gruppo Bergamo: trecento uomini che riuscirono ad avanzare nella neve insieme, ad affrontare gli scontri, a rientrare in Italia. Un destino quasi unico, in una tragedia in cui molte compagnie e batterie (reparti da 300 uomini circa) furono annientate completamente o ebbero poche decine di sopravvissuti.
«Mio papà era guardato un po’ con rispetto, come reduce di Russia: ancora in anni recenti gli alpini di Gallarate portavano un cero sulla sua tomba al cimitero di viale Milano» ci racconta Walter Maffenini, figlio di Serafino.
Abbiamo raggiunto Walter seguendo una traccia labile: un articolo del 1965 di Giulio Bedeschi, autore del libro “Centomila gavette di ghiaccio”. Bedeschi racconta la spirito che unisce gli alpini e quasi con commozione ricorda il dialogo con Serafino: «Ora sta a Gallarate, via Trombini 5».
Ma com’è che c’erano sedici fratelli in una sola Batteria? «A due a due c’erano otto coppie di fratelli», spiegava al tenente Bedeschi l’alpino Serafino Maffenini. Poche righe raccontano tutta la straordinarietà della vicenda:
«Due per otto, sedici fratelli. E tutti feriti, tutti congelati, tutti uguali e conciati, s’immagina che scena? Oggi pare una favola – e rideva, soddisfatto di raccontarne una bella. – E in quanti siete usciti dalla sacca? – In sedici, tutti quanti. Sa, ci si aiutava come si poteva, ci si teneva d’ occhio. Un po’ come tenersi sempre per mano. Sì, proprio, sedici fratelli, tutti usciti insieme dalla sacca. Ci scriviamo ancora adesso. Bello, no? Cose da alpini, appunto.
E tra quelle otto coppie di fratelli, c’erano anche i Maffenini: «Mio papà, nato nel 1919, e il fratello di mio papà, Luigi, del 1918» racconta Walter.
«Fecero il militare in due anni diversi, ovviamente. Ma quando furono richiamati per andare in guerra si ritrovarono insieme, nella stessa Batteria. Credo non fosse raro che ci fossero tante coppie di fratelli: i legami – tra fratelli, amici e compaesani – era la forza egli alpini. Ogni Compagnia, ogni Batteria era un paese».
«Il Regio Esercito sfruttava i legami parentali per dare forza ai reparti, dando la possibilità ai fratelli di stare insieme: una richiesta che doveva venire dalla volontà di entrambi, ma che solitamente avanzava per primo il fratello maggiore» racconta Michele Mazzoleni, di Almeno San Salvatore (Bergamo), i cui due prozii – Mario e Natale Rota – erano tra le otto coppie di fratelli della 32a Batteria, con i Maffenini. «Dei due miei prozii Mario aveva fatto già la campagna di Grecia e Albania, mentre Natale era al suo primo impegno. Partirono con il morale alto, perché non pensavano a una tragedia del genere».
32^ Batteria. 12/07/1942 Ultimi giorni in partria prima di intraprendere il viaggio in tradotta,che terminerà per errore…
Pubblicato da Sulla Linea di Mira su Venerdì 12 luglio 2019
(Foto della 32a Batteria alla vigilia della partenza)
Nell’agosto del 1942 i fratelli Maffenini e i fratelli Rota erano in marcia con 307 altri alpini, 147 muli, 7 cavalli: presero posizione sul fiume Don, che divideva l’esercito italiano a Ovest e i sovietici a Est.
I fratelli alpini nella ritirata di Russia
A dicembre del 1942 i russi lanciarono una enorme offensiva, con oltre 400mila soldati e più di mille carri armati. Gli italiani, insieme ai tedeschi, furono travolti e messi in fuga. Sul fiume Don rimasero solo gli alpini, chiamati a presidiare il fronte per coprire la ritirata: il 17 gennaio gli alpini lasciarono per ultimi le sponde del Don.
«Il 17 dicembre ho preso il mulo, ho attaccato l’obice e siamo partiti» raccontava Natale Rota al nipote, che oggi riporta le sue parole.
Luglio 1951. Cresta del monte Peralba. Dopo averne trasportato le componenti su bastino , gli artiglieri della 24^…
Pubblicato da Uboldi Mattia – Ramo Editoriale su Domenica 19 luglio 2020
(Foto di un cannone 75/13, scattata nel Dopoguerra da Lorenzo Valditara, sottotenente della 32a durante la ritirata)
Furono giorni e giorni di marcia nella neve e tra i ghiacci, tartassati dagli attacchi aerei, dalle improvvise incursioni dei carri armati. Il freddo uccideva di giorno e ancora di più nella notte, quando le soste duravano poche ore: «Mio papà raccontava che quando entravano nelle isbe (le tipiche case rurali russe, ndr) gli alpini venivano trattati normalmente abbastanza bene, a differenza dei tedeschi che erano costretti a usare violenza per entrare nelle case» ricorda Walter Maffenini, figlio e nipote dei due artiglieri alpini valtellinesi. «La popolazione li aiutava e collaborava, non apriva solo le porte. Mio padre raccontava che una sera chiesero a una di questa donne come mai li trattassero così bene: “Perché lo fate?” E lei rispose: “Anche io ho un figlio a militare, non so dove sia: sono sicura che se tua madre lo incontrasse farebbe a lui quel che faccio io a te”. Credo sia un episodio rivelatore».
Nel corso della ritirata Serafino fu ferito da una scheggia e rimase congelato, «ma suo fratello, mio zio, lo mise a dorso di mulo e riuscì a portarlo a casa». Fu la forza dei legami familiari, ma anche la perizia degli ufficiali a salvare quelli della 32a Batteria del Gruppo Bergamo, che erano bergamaschi, valtellinesi ed emiliani: Alfio Caruso nel suo libro “Tutti i vivi all’assalto” ricorda la cura e l’impegno del capitano Bruno Gallarotti e degli altri ufficiali che ogni sera facevano l’appello, controllavano che i soldati tenessero asciutti gli indumenti. Tra gli ufficiali della 32a c’era anche il sottotenente novarese Lorenzo Valditara, futuro comandante generale dei carabinieri.
«La loro fortuna è stata la fermezza del capitano, li ha tenuti in riga, ha dato fiducia» ricorda anche Michele Mazzoleni, che ha ricostruito nei dettagli il percorso della 32a Batteria, per scrivere il suo libro “Sulla linea di mira” (lo trovate qui). «Nella località Postojali il capitano Gallarotti ha convocato gli uomini e ha chiesto chi voleva rimanere sotto il suo comando: sono rimasti uniti ed è stata la salvezza».
Non fu comunque solo la compattezza a salvare la 32, ma anche la casualità degli eventi: ad esempio poche ore prima di Nikolaewka, la 33 – altra batteria del Gruppo Bergamo – fu sorpresa nella notte da pattuglie e autoblindo sovietiche ad Arnautowo e venne annientata.
26 gennaio 1943: la battaglia di Nikolaewka
Dopo nove giorni di marcia, la colonna degli alpini impattò contro la principale linea con cui i russi cercavano di bloccare la ritirata: lo scontro avvenne a Nikolaewka, un paesone lungo una ferrovia.
«Mio padre – dice Maffenini – raccontava che avevano mandato avanti le avanguardie che erano rimaste bloccate. Dalla cima della collina guardavano il paese sotto: se non fossero entrati per la notte sarebbero morti. Il generale Reverberi guidò l’attacco, una massa umana che travolse i russi. Mi diceva: “Vedevo soldati tutto intorno a me, slitte che scendevano malferme, ballonzolando, cariche di feriti”».
(Il sottopasso della ferrovia, conquistato dagli alpini del Battaglione Vestone a prezzo di grandi perdite)
Testimonianze e resoconti dicono che la 32a Batteria del Gruppo Bergamo combattè duramente quel giorno: «Sono arrivati a Nikolaewka alle 5 e mezza del mattino e hanno iniziato a sparare alle 6» ricostruisce ancora Mazzoleni. Nel corso della giornata i cannoni della batteria colpirono anche il campanile della chiesa, uno dei punti da cui i russi sparavano con le mitragliatrici. «Hanno sparato con i cannoni tutto il giorno e poi la sera sono scesi verso le isbe».
Contadini italiani e contadini russi quel giorno erano ancora costretti a spararsi addosso e a morire.
Ma a Nikolaewka gli alpini combatterono l’ultima battaglia: costretti dal fascismo a invadere l’Unione Sovietica, per schiacciare il comunismo e dare lustro a Mussolini, ora lottavano solo per tornare a casa e vivere in pace.
In Russia rimasero però migliaia di morti e dispersi, 75mila in tutto: uccisi in battaglia o dal freddo, scomparsi nelle neve. E poi ancora liquidati se non riuscivano a stare al passo nelle terribili “marce del Davai” verso i campi di prigionia, falcidiati dalle malattie nei campi sovietici (soprattutto nei mesi prima dell’estate).
I fratelli Maffenini in Russia, dal rientro alla vita in pace
Dopo la battaglia di Nikolaewka gli alpini marciarono ancora per giorni e poi finalmente trovarono i treni che li riportarono in Italia.
«Ricordava con tristezza e rabbia il rientro in Italia, quando al confine li chiusero dietro ai portelloni dei carri ferroviari, per non farli vedere. Per non far vedere i soldati alla popolazione, alle madri che aspettavano nelle stazioni cercando i loro figli».
(Alcuni superstiti della 32a Batteria, Gruppo Bergamo: accovacciato il sottotenente Valditara, alla sua destra il capitano Gallarotti, comandante della Batteria)
La Divisione Tridentina fu mandata in caserma a Merano e qui anche i Maffenini furono sorpresi dall’8 settembre 1943, l’armistizio che diede inizio a una nuova tragedia, con l’occupazione tedesca dell’Italia.
«Il papà aveva ricevuto una scheggia di granata in una gamba, che era rimasta lì, diceva “Può sempre servire”» racconta ancora Walter Maffenini. «Mi ha raccontato poi tutto mio zio: mio papà aveva marcato visita dicendo che aveva dolore ed era stato ricoverato all’ospedale militare: un tenente medico italiano e uno tedesco gli diedero un congedo per malattia. Così è riuscito a rientrare a Teglio: arrivato a Verona, dove doveva cambiare treno, fu bloccato dai tedeschi ma riuscì a proseguire grazie al foglio di congedo, raccontava che i tedeschi lo aiutarono persino con i bagagli. Teglio era un punto di passaggio verso la Svizzera e riuscì a rimanere lì fino alla fine della guerra.
Più duro invece il destino del fratello Luigi: «fu mandato in un campo di lavoro in Germania, lavorava nei campi in una fattoria» (tra gli Internati Militari Italiani in Germania ci furono decine di migliaia di morti: vengono ricordati anche loro nel Giorno della Memoria del 27 gennaio).
E dopo la guerra, come ha fatto Serafino a finire a Gallarate, «via Trombini 5», e a diventare il “vecio” delle penne nere gallaratesi?
«Loro erano nove, tra fratelli e sorelle. La sorella Rosa, che aveva diciotto anni in più di mio papà, si era sposata con una persona di Coarezza. Mio padre si è sposato nel 1948 con una ragazza di Teglio, mia mamma. Fecero il viaggio di nozze per trasferirsi a Coarezza, dove avevano trovato un lavoro al papà: fece il muratore nella stessa ditta del marito della zia Rosa. Mia mamma poi ha iniziato a lavorare in via Trombini 5 come portinaia, ci siamo trasferiti lì nel 1951. Mio papà è morto nel 1965».
E lo zio, l’artigliere alpino Luigi? «Ha vissuto a Teglio ed è morto quasi centenario».
QUI TUTTE LE STORIE DELLA CAMPAGNA DI RUSSIA RACCOLTE DA VARESENEWS
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