“The Model”, l’elegante omaggio dei John Ford agli immortali Kraftwerk
A distanza di quasi dieci anni la formazione varesina ritorna in studio e reinterpreta in chiave “new wave” una delle più celebri canzoni della band tedesca, tratta dallo storico disco “The Man Machine”
Un elegante, oscuro, ma al tempo stesso “soffice”, omaggio ai Kraftwerk e alla loro “The Model”, una delle canzoni più importanti della musica elettronica. A distanza di oltre dieci anni dal loro ultimo lavoro in studio di registrazione, i varesini John Ford ritornano sulle scene musicali con una cover d’eccezione, pubblicata lo scorso 28 dicembre dall’album “Mark II”.
Per la propria reinterpretazione di “The Model” i John Ford guardano agli iconici Kraftwerk con una formazione rinnovata: ad affiancare Mauro Freddi (synth e drum machine) e Vincenzo Morreale (basso e chitarre e per l’occasione anche autore del videoclip), c’è infatti, alla sua prima esperienza con il cantato in inglese, il frontman degli Unsense Samuele Zarantonello; il tutto coadiuvato da Daniele “Mack” Finocchiaro, autore di mix e master presso il RedFish Studio di Cittiglio.
Sulla scia della new wave anni ’80, e del suo revival di inizio anni 2000 grazie ai primi (bellissimi) dischi degli Interpol, le originali e spigolose sonorità dell’elettronica formazione tedesca lasciano spazio alle più malinconiche e sonnambule atmosfere ricreate con cura dai John Ford sul modello di grandi poeti moderni della musica anglofona, ora oscuri, sensibili e tenebrosi come i Joy Division, ora eleganti e avanguardisti come David Bowie e i Talking Heads di David Byrne.
“The Man-Machine”, quando il teatro passò il testimone alla poesia elettronica
«Noi ricarichiamo le nostre batterie / e ora siamo pieni di energia / Noi siamo i Robot». Strofe in tedesco e ritornelli in russo si alternano sulla base di un riff minimale creato tramite l’utilizzo di un sintetizzatore. È la fredda e metallica voce di Robot dei Kraftwerk in “Die Roboter” (nella versione inglese “The robots”), canzone che alzava il sipario su “Die Mensch-Maschine”, vera e propria pietra miliare nella storia della musica, probabilmente il più celebre e osannato album dell’epopea elettronica nata dalla band tedesca.
Era il 1978, la fine di una decade in cui mai come prima teatro e teatralità avevano influenzato la cosiddetta “popular music”. Negli USA Jim Morrison “aveva aperto le porte” e segnato la strada cantando Brecht (Alabama Song) e citando l’Edipo di Sofocle (The End) nell’omonimo disco d’esordio dei Doors (1967), mentre in Europa accanto ai bizzarri costumi di Peter Gabriel in scena coi Genesis (1969-1975) e i tanti “alter-ego” di David Bowie – che oggi avrebbe festeggiato il suo 74esimo compleanno – a preparare il terreno per i più sfarzosi Ottanta c’erano anche i “manichini” dei Kraftwerk, le fantascientifiche, alienate e inquietanti marionette elettroniche di Ralf Hütter, Karl Bartos, Florian Schneider e Wolfgang Flür.
E se la Fata Turchina rese Pinocchio un “vero bambino”, quel “look” avanguardista alla Majakovskij, con la cravatta nera su camicia rossa, regalò un’anima agli alter-ego robotici del quartetto tedesco, figli adottivi del cineasta espressionista Fritz Lang e legittimi rappresentanti “dell’uncanny valley”, la teoria ideata da Masahiro Mori in cui viene descritta l’inquietante sensazione generata dall’estremo realismo dei robot se troppo somiglianti agli esseri umani.
Come già detto il “settimo sigillo” dei Kraftwerk fu un successo e tutt’oggi viene ancora omaggiato da artisti di tutto il mondo, Italia compresa, dove il “caso” più celebre risale al 1998 quando un giovane Morgan e i soci dei Bluvertigo scelsero di vestirsi e muoversi proprio come i manichini dei Kraftwerk per il videoclip di “Altre forme di vita”. Oltre a “Die Roboter”, l’altro grande successo del leggendario disco fu proprio “Das Model”, “The Model” in inglese, reinterpreta in salsa “metal” da un’altra celebre band tedesca, i Rammstein
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