Coop Lombardia al fianco delle donne: “A Busto Arsizio hanno scritto un pezzo di storia”

Coop ha voluto omaggiare le migliaia di donne (spesso bambine) che hanno fatto grande il nome dell'industria bustocca nel mondo. Un video racconta le fatiche di intere generazioni impiegate nell'ex-calzaturificio Borri

Coop Lombardia omaggia le lavoratrici che hanno fatto la storia della Manchester d’Italia, Busto Arsizio. In occasione della presentazione del bilancio sociale, il presidente di Coop Lombardia, Daniele Ferrè ha voluto dedicare una parte dell’incontro annuale (che si è svolto al teatro San Giovanni Bosco) alle donne che hanno sacrificato il momento più bello della vita di ciascuno di noi allo sviluppo del Paese. A presentare l’evento ci ha pensato la giornalista Vera Paggi con lo stesso Ferrè, Nicoletta Bigatti, Silvia Amodio e Liberto Losa (presidente dell’Anpi di Busto Arsizio) come ospiti.

Le operaie del calzaturificio Borri, accanto al quale oggi sorge la Coop di viale Duca D’Aosta, sono le protagoniste del video realizzato dalla fotografa Silvia Amodio che parte da una storia di fantasia per raccontare le condizioni delle donne (spesso bambine) che lavoravano all’interno del calzaturificio bustocco, il primo in Italia ad introdurre i macchinari nella produzione di calzature.

coop busto arsizio bilancio sociale 2021

Attivo dal 1892 al 1991 fu il primo a utilizzare macchinari per l’intera produzione di calzature, fino ad allora realizzate a mano. All’inizio del Novecento produceva 500 paia di scarpe al giorno e dava lavoro a circa 200 persone. Dopo la partecipazione nel 1906 all’Esposizione Internazionale di Milano, l’azienda ha ampliato la produzione arrivando a confezionare 1.200 paia di scarpe al giorno. In piena attività negli anni Sessanta contava oltre 600 lavoratori. «Oggi quel luogo è di proprietà del Comune di Busto Arsizio, che lo ha acquistato 30 anni fa, e versa in una situazione di degrado totale» – ha dichiarato il presidente Ferrè.

Il negozio Coop si trova proprio adiacente alla fabbrica, che è attualmente in attesa di una riqualificazione. La fotografa Silvia Amodio ha dedicato alle lavoratrici un cortometraggio dal titolo “Cara sorella”, con la coregia di Alvaro Lanciai.

«Mi ha fatto piacere ricevere l’incarico di seguire questo progetto – ha dichiarato la fotografa -. Mi interessa molto leggere o ascoltare le storie delle persone, soprattutto di quelle comuni, perché c’è sempre qualcosa di straordinario e interessante che si nasconde dietro una vita apparentemente normale. Il problema del lavoro infantile, che nel nostro immaginario pare riguardare solamente i Paesi cosiddetti in via di sviluppo, è una realtà che ci ha toccato da vicino qualche decennio fa, e non solo nel Sud Italia, come un altro pregiudizio ci porterebbe a pensare, ma anche nell’industrializzato Nord. Grazie ad alcuni contatti sul territorio abbiamo tentato di trovare le operaie da intervistare, ma purtroppo non c’era più nessuno disponibile, la maggior parte erano decedute ed altre troppo anziane per affrontare una giornata di riprese. Mi avevano insegnato quanto fosse preziosa la memoria, ma in quel momento ho realizzato quanto si perde per sempre se non viene custodita. Ho dovuto rivedere il progetto e riscrivere il lavoro trasformandolo in un’opera di fantasia».

coop busto arsizio bilancio sociale 2021

Fondamentale è stato lo spunto preso dal libro della legnanese Nicoletta Bigatti , autrice de “L’altra Fatica”, una raccolta di testimonianze sul lavoro femminile nelle fabbriche dell’Alto Milanese, tra il 1922 e il 1943: «La mia opera risale a qualche anno fa e, a differenza di Silvia, ho avuto la fortuna di incontrare alcune di queste operaie anche se ormai molto anziane» – ha raccontato la ricercatrice .

Documenti preziosi per non dimenticare quel pezzo di storia tra l’arretratezza e la modernità in cui i flussi migratori, non solo verso l’Europa o i Paesi d’oltremare, ma anche lungo la nostra penisola hanno rimodellato la società: «Le giovanissime operaie, spesso bambine di 12 anni, venivano da Crema, dalla bassa Padana e dal Veneto. Il lavoro nelle fabbriche veniva proposto come modello di modernità industriale a discapito dell’attività agricola».

La sceneggiatura del cortometraggio parla di una ex-lavoratrice che scrive alla sorella. Nella lettera ricorda la vita di quando erano bambine e il lavoro in fabbrica. Le racconta anche di un sogno, animato nel video da Fabio Bozzetto, nel quale si rivede bambina in fabbrica, insieme alla sorella e a un’amichetta, con la quale ogni giorno facevano un pezzo di strada insieme per andare a lavorare. Così il monumento posizionato davanti al supermercato, realizzato dall’architetto Nicola Marinello (lo stesso che ha realizzato l’edificio della Coop) e la bustocca Francesca Tacchi, prende vita e diventa un’animazione.

Attraverso i loro racconti e lunghe ricerche svolte negli archivi, nei registri scolastici e nelle cronache dei convitti industriali, è stato possibile ricostruire la vita e le dinamiche sociali di quegli anni. «Il nostro territorio – prosegue Silvia Amodio –  ospitava più che altro industrie tessili e di abbigliamento dove la maggior parte della mano d’opera era femminile. Mogli, madri e figlie che rappresentavano “l’altra fatica”, un’immagine diversa da quella virile e muscolare che il fascismo amava celebrare in quegli anni. Volti e storie spesso invisibili, perché l’idea della donna doveva essere relegata a quella dell’angelo del focolare per non inquinare e compromettere il modello fascista, quello della moglie mite al servizio del marito e dei figli».

All’epoca l’obbligo scolastico era fino ai quattordici anni, ma la necessità di qualche soldo in più, unita al fatto che non si dava molto peso all’istruzione femminile, spingeva diverse famiglie a mandare le figlie a lavorare assai prima, complice la continua richiesta di manodopera da parte delle aziende del territorio.

«Le scappatoie previste dai testi legislativi abbassavano di fatto ai dodici anni la possibilità di accesso al mondo del lavoro – prosegue la ricercatrice -, ma almeno per tutti gli anni Venti non erano rari i casi di bambine che trovavano un’occupazione già a nove, dieci anni. Per i maschi il fenomeno era molto più contenuto, anche perché quando nelle famiglie si riconosceva l’importanza di un’educazione scolastica questa era, tendenzialmente, riservata a loro. La vita delle operaie era molto faticosa, spesso dovevano raggiungere il luogo di lavoro, molto distante da casa, a piedi o in bicicletta. Trasferimenti talmente lunghi da essere spesso causa di aborti spontanei nel caso di donne che dovevano recarsi in fabbrica fino all’ottavo mese di gravidanza. I turni erano massacranti e gli incidenti sul lavoro all’ordine del giorno».

«Le grandi manifatture bustesi – aggiunge Daniele Ferrè, presidente di Coop Lombardia – sono legate alle fatiche e ai sacrifici dei dipendenti, che hanno vissuto per decenni in condizioni di sfruttamento, superate solo grazie alle loro rivendicazioni. Le lavoratrici sono passate alla storia della Resistenza cittadina per aver organizzato una manifestazione nel marzo del 1944. Dopo tre giorni di proteste, ottennero la liberazione di una di loro, arrestata per rappresaglia dopo uno sciopero».

«Le lavoratrici hanno agito da sole per salvaguardare i dipendenti uomini, ritenuti più esposti alle rappresaglie nazifasciste – conclude Liberto Losa, presidente Anpi di Busto Arsizio -. Siamo di fronte anche ad una manifestazione importante, in una situazione drammatica, di emancipazione femminile».

Il video dell’evento

Orlando Mastrillo
orlando.mastrillo@varesenews.it

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Pubblicato il 22 Maggio 2021
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