La scarpa
di Gian Paolo Zoni
Stamattina ero a casa di Gigi, mio amico d’infanzia. Abita tuttora con i suoi vecchi, in una villetta di via Vico. Lui sotto e i genitori sopra. Lo sorpresi in garage, smontava un televisore del 1980. Ci abbracciammo a lungo, felici di rivederci dopo tanto tempo. Mi chiese perché fossi tornato. Nostalgia, risposi. Poi gli diedi una mano a completare l’autopsia alla vecchia TV.
Spengo il telefonino. Il poliziotto con cui ho parlato ha chiesto di non muovermi da lì. Ma il “lì” non è qui.
Il cimitero di Sant’Elmo è silenzioso, solo il fruscio delle foglie che si sfregano tra loro. Cerco la tomba di Aldo Creti, morto suicida in carcere nel settembre del 1998. Aveva ventidue anni, il pensiero volatile in una mente disordinata e flebile, figlio unico del giornalaio, e unico indiziato dell’omicidio di mia sorella Agata. Una undicenne dal sorriso vivace e il cuore ancora troppo piccolo. In quei giorni io e i miei amici Franco e Gigi eravamo convinti della sua colpevolezza. Un minorato mentale che si recava ogni giorno nei boschi dietro il campetto da calcio, e in quell’estate lo incrociavamo spesso. Eravamo convinti fosse lui. Il killer perfetto. Fummo noi a indirizzare i sospetti. Quello scemo non fiata mai, ti squadra come se davanti avesse fondi di caffè, un sorriso ebete ad aprirgli la bocca e lo sguardo perso, dicevamo. Recuperarono nel suo giardino una delle scarpe da ginnastica di Agata. Il giorno dell’arresto la signora Creti ebbe un malore, e suo padre gridò così forte da spaventare i cani dei vicini che gli risposero ululando. Poca cosa rispetto al tormento della mia famiglia.
La tomba si trova nella parte inferiore del cimitero, dove gli ultimi loculi si allineano sulla parete che dà a Sud. Lontano dalle altre, appartata. Niente nome, date o foto, soltanto l’ombra di un fiore scolpito nel marmo.
La pioggia fine bagna i miei capelli radi, sono qui, a distanza di quasi vent’anni, per chiedere perdono. Mi inginocchio sulla ghiaia, i calzoni freschi di tintoria, accolgo il dolore, che mi penetri in ogni cellula fino all’anima, e rievochi in tal modo un antico volto associato a un altro tipo di sofferenza. E non lo rammento. E Piango. Lacrime per la piccola Agata e le sue treccine dorate, per il giovane Aldo di cui non ricordo il viso, per la dissimile innocenza di entrambi. Odo le sirene. Le forze dell’ordine si avvicinano al “lì”. Scopriranno il corpo di Gigi. Vedranno la ferita profonda alla testa e il martello intriso di sangue appoggiato sul banco di lavoro. Ripenso alle sue ultime parole, “Ho bisogno della pinza con gli occhielli, è nella scatola blu sopra la mensola”. Presi il contenitore sbagliato, sono discromico. All’interno una scarpa da ginnastica.
Racconto di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Mauro Speri
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