La nuova normalità è un miraggio

Le organizzazioni corrono il grosso rischio di sottovalutare il carico di stress, di adattamento e di mutate aspettative che si sono accumulate

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Incontro di lavoro con un cliente nuovo. Progetto importante. Sopralluogo alla sede in corso di ristrutturazione. Non si può fare neanche con la realtà aumentata. Bisogna toccare, vedere, provare, sentire, annusare, prendere le misure agli spazi, al contesto, a ciò che da remoto non si percepisce, come la cultura. Serve creare la chimica emotiva con il team di progetto, la relazione di comprensione e affinità che genera fiducia. Serve la presenza fisica di tutta la nostra umanità. Si parte in auto da Bodio Lomnago per Parma, capitale del gusto.
Il panico inizia la sera precedente: cosa mi metto? Dopo un anno e mezzo di lavoro da casa, l’algoritmo che abbina calzino-scarpa- cintura-camicia-vestito-orologio-occhiale a clima-cliente-umore-moda-peso è lento, non ha fatto l’aggiornamento software alla nuova normalità. Non sa se le cravatte sono estinte, se il colore della mascherina va preso in considerazione, qual è il colore “in” per stare “out” dell’estate 2021? Non è l’unico ad avere problemi.
Le code sulla tangenziale, i lavori in corso sull’autostrada, l’imbecille che ti taglia la strada guardando l’ultima foto su Instagram, la stazione di servizio con i pagamenti con carta fuori servizio; tutti i fastidi e rischi della vita, in tempo di vacanze, sono tornati dalla vacanza-Covid e ti aspettano puntuali lungo il percorso.
A compensare le frustrazioni delle frizioni della vita “reale”, ritrovo il piacere di vedere il mondo e togliere lo sguardo da uno schermo di 20 pollici, che mi rimanda da mesi la stessa monotona faccia, la mia, che avrebbe nauseato anche Narciso. Ritrovo, il viaggio, un tempo di scoperta interiore, di ascolto di musica, conversazioni e pensieri intelligenti – a volte anche propri – di tessitura di uno spartito di vita che si compone ad un ritmo umanamente sostenibile.

La visita e la riunione di progetto durano 3 ore. Parto da casa alle 6.45am e torno alle 22pm, 12 ore di inefficienza, secondo la miope misura della produttività. Cosa guadagno però? L’ineffabile qualità delle relazioni umane, che si nutrono di sguardi, cura, discorsi professionali e personali, che dilatano i tempi degli incontri e dei pranzi e ci restituiscono una vita più autentica, nonostante il distanziamento e le protezioni ancora necessarie. Quelle relazioni, costruite negli anni, senza le quali questi mesi di lavoro e vita a distanza forzata sarebbero stati insopportabili e insostenibili. In verità, dentro le 12 ore extra, oltre ai trasferimenti, al pranzo e a due ore di lavoro in sede, si trova anche una perla.

La serata di festa-riconoscimento-alla-carriera per gli 80 anni di Toni Muzi Falconi, un’icona delle pubbliche relazioni di fama mondiale e co-fondatore di Methodos. Un esempio illuminante di evento ibrido, disegnato come un dialogo tra i presenti mascherati al Palazzo delle Stelline a Milano e la platea domesticamente rilassata in diretta streaming globale su Zoom, Facebook e YouTube. Gli ingredienti della ricetta ibrida, contenuti a parte, sono tre: 1. la tecnologia professionale e testata, che fornisce un service di qualità, alternando inquadrature ampie e focalizzate, sia dalla sala che da remoto; 2. un ritmo andante con brio, in frazioni di 5 minuti, che mantengono alta l’attenzione, con registri diversi (i contributi video pre-registrati, gli interventi in diretta, previsti e liberi, le parti istituzionali e le inattese sorprese teatrali); 3. una netta separazione tra la parte ufficiale, che ha una sua compiutezza e autonomia, e la parte conviviale, informale, di networking e socializzazione, che segue l’evento, come valore aggiunto insostituibile, per l’investimento psico-fisico e temporale di essere presenti.

Chi mancava sia alla riunione di lavoro, sia all’evento era la mitologica nuova normalità. Da tempo questo concetto si è fatto largo e ha sedotto come un miraggio le organizzazioni, i leader e tutti noi, illudendoci di essere in arrivo, una linea netta come una linea di ri-partenza, con data (dopo le ferie) e luogo di appuntamento, di solito l’ufficio. Di fronte alla perdita di controllo e punti di riferimento, ci è sembrato di poter ritornare, con i necessari aggiustamenti (meglio se pochi, veloci e gratis), a come eravamo prima, alla normalità. Non è così. Il divario si misura dall’allontanarsi costante delle date, dalla crescente e strisciante consapevolezza che del virus, e degli effetti economici della pandemia, non ci libereremo presto (mai?), dalla distanza tra quello che le aziende vorrebbero (imporre) e quello che le persone non sono più disposte ad accettare. Tra i top manager abbonda la visione che l’ufficio debba rimanere centrale e predominante, ovvero che si possano stabilire chiaramente la policy sulle percentuali e il numero di giorni. Tra le persone, invece, si registra una spinta forte verso il lavoro da remoto (3 giorni) e massimo 1-2 giorni in presenza, anche se non è così per tutti, per ruolo e per preferenza personale. Chi non ci crede vada a vedere quanti dipendenti Apple e Amazon stanno facendo le valigie perché Tim Cook e Jeff Bezos hanno chiesto il ritorno in massa in ufficio. Fenomeno solo a stelle e strisce? Non sembra.

Secondo una ricerca dei Consulenti del lavoro in Italia il 44% dei lavoratori non sarebbe contento all’ipotesi di tornare a lavorare esclusivamente in presenza e un ulteriore 17% cercherebbe un altro lavoro, anche con una riduzione di stipendio. Nota bene: quest’ultima percentuale sale al 34% per chi ha meno di 34 anni. Le organizzazioni che si aspettano una nuova normalità dietro l’angolo, corrono il grosso rischio di sottovalutare il carico di stress, di adattamento e di mutate aspettative che si sono accumulate. I dipendenti sanno cosa vogliono e stanno rivalutando i loro rapporti con il lavoro, con la vita.

La sfida è complessa, unica e richiederà anni per essere compresa, affrontata e superata. Ci sono molte domande per le quali non esistono risposte chiare e consolidate. Quando è meglio essere tutti in presenza? Tutti da remoto? Quando è accettabile la modalità ibrida? Come ingaggiare i partecipanti da remoto? Come mantenere una parità di contribuzione? Come aumentare l’efficienza delle riunioni? Come rispettare il work-life balance e il lavoro focalizzato individuale? Come sostenere la comunicazione e collaborazione informale? Come favorire la creatività spontanea? Ci siamo abituati a gestire il lavoro con tutti a distanza. Il futuro sarà diverso, e molto più ibrido, misto e dinamico. Come evitare il proximity bias e l’emergere di due sotto-culture organizzative, tra chi lavora principalmente da remoto e chi in presenza? Il bias di prossimità è un fenomeno in cui manager e leader iniziano a favorire o sono più inclini a persone o dipendenti, che sono visti in ufficio o spesso visibili o presenti di persona. Le interazioni con le persone che lavorano da remoto sono limitate, formali e programmate. Le interazioni in ufficio, invece, sono molto informali e aiutano a costruire relazioni. Servono una gestione nuova della comunicazione, delle riunioni, delle tempistiche, delle informazioni, delle regole di ingaggio; serve in primis un cambio culturale e di atteggiamento. Bisogna essere realisti: la messa a punto del prossimo modello di lavoro e servizio ai clienti richiederà anni ed è uno sforzo che va affrontato in modo specifico e parallelo rispetto al ritorno a breve termine in ufficio. Il primo passo da fare è avere l’umiltà di adottare un modello di sperimentazione, di apprendimento basato sui dati e avere l’onestà intellettuale di riconoscere che non sappiamo quanto tempo ci vorrà per far emergere le risposte migliori per ogni organizzazione.
La meta è partire”, Giuseppe Ungaretti.

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Pubblicato il 10 Agosto 2021
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