Dal lavoro al fianco dei militari italiani all’evacuazione: interprete afgano da due mesi a Varese con la famiglia
Ha 33 anni ed è partito da Herat il 14 giugno nell’ambito dell’operazione “Aquila” che ha trasferito i collaboratori delle nostre forze armate dal Paese

Mentre sull’onda dell’ultima fase di evacuazione dello scalo aeroportuale di Kabul politici e amministratori si interrogano su come ospitare i collaboratori delle nostre forze armate in Afghanistan, a Varese da quasi due mesi uno di loro è già all’interno del sistema di accoglienza.
Si tratta di un interprete afgano di 33 anni e della sua famiglia: sua moglie e i suoi due bambini piccoli di 6 e 7 anni. Tutti e 4 furono trasferiti da Herat il 14 giugno nell’ambito dell’operazione “Aquila” che ha portato in Italia i primi collaboratori afghani del contingente italiano con i loro familiari. Erano in totale 228 persone prese in carico dal ministero dell’Interno per il successivo inserimento nella rete di accoglienza e integrazione.
Asif (useremo questo nome di fantasia per proteggere l’identità di una persona che ha ancora sul suolo afgano famigliari che rischiano la ritorsione dei talebani Ndr) ha collaborato con la NATO nel suo paese per 14 anni e dal 2010 a stretto contatto con il contingente italiano a Camp Arena ad Herat: «Conosco praticamente tutti i carabinieri italiani che sono passati in Afghanistan in questi anni», ci racconta.
Oggi Asif e la sua famiglia sono ospitati nel sistema di accoglienza che era già in essere per la gestione dei richiedenti asilo, non senza qualche problema, come ci racconterà.
Il lavoro al fianco dei militari italiani ad Herat

«Il mio lavoro al fianco dei militari italiani è cominciato mentre ero già al servizio delle forze militari Nato – racconta il giovane interprete -. Quando mi sono accorto che c’era un grande bisogno di personale che sapesse l’italiano per agevolare il lavoro delle forze armate mi sono messo ad imparare la lingua da solo attraverso libri e corsi online e in due anni ho cominciato. Ho lavorato a stretto contatto con tutti gli italiani passati da Camp Arena, collaborando con generali e soldati».
Il suo lavoro è terminato bruscamente un giorno e mezzo prima della sua partenza per l’Italia. «Ci è stato comunicato il trasferimento senza preavviso e sono dovuto partire con la mia famiglia lasciando la macchina, la casa e anche il conto in banca dal quale non ho potuto prelevare neanche un centesimo. Al mio arrivo in Italia disponevo solo dello stipendio delle ultime due settimane di lavoro».
I limiti dell’accoglienza e il percorso da costruire
L’accoglienza dei collaboratori afgani è un flusso recentissimo e ancora tutto da mettere a punto per dare ospitalità a persone che hanno una situazione profondamente diversa da quella dei precedenti flussi migratori, a partire dal fatto che hanno collaborato con le nostre forze armate nel proprio paese d’origine e che sono quasi sempre accompagnati dalla propria famiglia, con esigenze diverse rispetto ai richiedenti asilo che si sono mossi da soli.
«Viviamo in un appartamento piccolo con una fornitura di cibo non adeguata alle esigenze della mia famiglia – racconta Asif -. Non chiedo molto, solo di poter scegliere cose diverse per i miei bambini senza spendere un euro in più di quello che è stato disposto. Del resto avevamo un accordo con il ministero della difesa che ci avrebbe garantito del cibo il più possibile attinente anche alla nostra cultura culinaria e religiosa. Io non ho potuto portare con me soldi altrimenti non chiederei nemmeno queste cose. Mia moglie inoltre sta vivendo una difficile fase psicologica e abbiamo bisogno di cure».
La preoccupazione per chi è rimasto in Afghanistan
Le preoccupazioni di Asif non sono solo dovute alle condizioni sua e della sua famiglia qui a Varese ma soprattutto per chi è rimasto in Afghanistan e non è riuscito a partire. Abbiamo visto nelle cronache dei giorni scorsi quanto sia stata complicata e confusa l’ultima fase dell’evacuazione dallo scalo di Kabul e di come, anche chi ne avesse diritto, in molti casi non sia riuscito a raggiungere l’aeroporto e partire.
«Mio fratello è tra questi – racconta Asif -. È stato un militare delle forze speciali afgane e ha partecipato a decine di interventi al fianco dei militari occidentali. Un ruolo che lo costringe a nascondersi dalla vendetta dei talebani. Lui era riuscito ad entrare in una lista di estrazione e per ben tre volte, insieme ai suoi figli, ha tentato di entrare nello scalo senza riuscirci. È scampato per miracolo all’attentato di alcuni giorni fa solo perché in quel momento erano andati a cercare da bere spostandosi dalla zona dove è esplosa la bomba. Con lui in Afghanistan è rimasto anche un altro fratello e mia madre e sono molto preoccupato».
I contatti del giovane interprete con parenti, amici e colleghi sono frequenti e si muovono attraverso i gruppi di messaggistica istantanea dove arrivano informazioni e foto dalla tragedia afgana: «prego tutti i giorni per chi è rimasto nel mio paese e per chi è partito».
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