I volontari ticinesi che lottarono contro il fascismo in Spagna

A settembre 1936 dal Ticino accorsero in difesa della Repubblica, contro il golpe di Francisco Franco. In Spagna vissero entusiasmo e delusioni, in Svizzera furono processati e condannati. Fino alla riabilitazione 70 anni dopo

volontari ticinesi Spagna

Dietro a un muro di cemento, all’ingresso nuovo del cimitero di Castel San Pietro, tra Mendrisio e Chiasso, c’è un mosaico d’arte astratta: accanto una piccola targa spiega che l’opera ricorda i nomi di Luigi Giacinto Maspoli ed Enrico Medici, combattenti volontari per la Repubblica in Spagna, caduti nel 1936 e nel 1938.

Nella pacifica Svizzera, è quanto di più simile ci sia ad un monumento ai caduti: uno dei tre segni pubblici che ricordano i cittadini elvetici che dal Canton Ticino partirono per difendere la Repubblica contro i golpisti del generale Franco. Furono un’ottantina i combattenti ticinesi nella Guerra di Spagna, sedici di loro non tornarono mai a casa.

Il generalissimo Francisco Franco aveva mobilitato le sue truppe contro il legittimo governo spagnolo il 18 luglio 1936.  «La lotta antifascista fino ad allora era una lotta passiva, erano loro all’attacco. Questa qui era l’occasione buona invece: finalmente sa podeva agire, a vorevum vedere ‘sti fascisti in faccia» raccontava anni dopo uno di loro, l’allora giovane studente di medicina Elio Canevascini, poi per anni chirurgo a Mendrisio.

Figlio del socialista Guglielmo Canevascini (che era consigliere di Stato), Elio fu uno dei primissimi ticinesi ad accorrere in Spagna: da Parigi – dove studiava all’università – raggiunse la frontiera, di qui Barcellona, dove si arruolò nella “Colonna Ascaso”. La formazione, formata da libertari e socialisti, comprendeva anche un folto gruppo di volontari antifascisti italiani, guidati da Carlo Rosselli, il socialista liberale che guidava il gruppo di Giustizia e Libertà.
«Un certo Bianchi, italiano, mi consegnò la mia tessera di membro della Colonna Ascaso firmata da Carlo Rosselli» raccontava ancora Canevascini «Da quel momento cominciò la mia attività di sanitario al fronte».

Il movimento di Giustizia e Libertà era la forza più attiva dell’antifascismo italiano in esilio. Il movimento aveva messo radici anche nel pacifico Ticino, dove aveva trovato il sostegno dell’attivo movimento socialista svizzero-italiano: nel 1930 ad esempio italiani e ticinesi avevano ideato e messo in atto il “volo per la libertà” di Giovanni Bassanesi, che in aereo era partito dalla zona di Bellinzona e aveva lanciato volantini sopra Milano, incitando alla ribellione contro il fascismo.

Dal Ticino a Milano: il pilota col mal d’aria e il folle volo contro la dittatura

Quando il 18 luglio 1936 il generale Francisco Franco si sollevò con una parte dell’esercito contro il governo della Repubblica spagnola, centinaia di antifascisti si arruolarono subito nelle prime formazioni internazionali, per andare a combattere una guerra che sentivano necessaria, anche se i governi europei rimanevano neutrali. E anche in Ticino decisero di agire: partirono giovani anarchici, socialisti, comunisti. Idee diverse, ma uniti nella volontà di combattere il nazifascismo.

“Come un fuoco: bisognava andare”

Nella Confederazione elvetica non mancavano i sostenitori del fascismo e del nazismo, soprattutto nella Svizzera tedesca.
Ma non pochi erano anche i militanti antifascisti. Un ruolo particolare giocavano gli esuli dall’Italia: nelle città di Zurigo, Basilea, Ginevra e Lugano, c’erano anche colonie di emigranti italiani, “in continuità con una significativa presenza di associazioni socialiste, anarchiche e repubblicane sin dagli ultimi decenni dell’Ottocento”, come ricorda il professor Renato Simoni, studioso dei volontari ticinesi.

Dal Ticino partirono esuli italiani, borghesi o proletari, ma subito anche cittadini elvetici.
Elio Canevascini veniva da una famiglia socialista. Comunista era il più giovane di tutti i volontari conosciuti, Eolo Morenzoni, partito sedicenne: «Ero già militante da molto tempo, mi sono iscritto alla Gioventù comunista a 13 anni» raccontava nell’intervista del bel documentario che la Radio Televisione Svizzera Italiana dedicò ai volontari nel 1976. «C’era una forma di entusiasmo, di fuoco: bisognava andare».
Alcuni erano giovani, altri avevano invece già una famiglia, ma decisero comunque di partire: «Non son mica andato via a cuor leggero» raccontava Antonio Canonica, ticinese di Corticiasca che era emigrato a Basilea e in Francia (partito il 31 agosto 1936, in Spagna entrò nelle file della Centuria Gastone Sozzi, comunista).
I più erano operai, manovali, artigiani, da zone con presenza operaia. Ma non mancavano anche volontari dai più remoti villaggi di montagna, come Crana o Mologno in Val Onsernone.

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Antonio Canonica in braccio al bresciano Pietro Ramazzini, al Pardo di Madrid. Sul retro della fotografia originale (qui) sono indicati come “due della Sozzi”

I volontari in Spagna e la partenza clandestina dal Ticino

Per i ticinesi arruolarsi nelle file repubblicane era una scelta illegale: la Confederazione, per rimarcare la sua neutralità, si era infatti affrettata ad approvare due decreti federali, nell’agosto 1936 , che stabilivano il divieto di arruolarsi ma anche di fornire qualsiasi forma di solidarietà materiale.

L’uscita dai confini svizzeri verso la Francia (unico passaggio possibile per andare in Spagna) divenne la prima prova. «Le nostre autorità hanno cercato tutti i mezzi e gli impedimenti per renderci impossibile la partenza» raccontava Aldo Lonati, volontario di Agno, partito con un gruppetto di altri cinque compagni.
I sei si nascosero «per due giorni in un piccolo albergo di Cassarate», poi per evitare i controlli si affidarono a un tassista che era conosciuto per le sue simpatie di destra, confidando che la cosa sviasse l’attenzione della polizia. «Due son saltati su a Bellinzona, due a Faido e due ad Airolo. Sul treno non stavamo insieme, per non dare nell’occhio».
La politica svizzera verso gli antifascisti italiani si era già fatta più rigida da alcuni anni: nel 1933 ad esempio era stato espulso dalla Confederazione Randolfo Pacciardi, un repubblicano che fu poi comandante dei mille combattenti italiani del Battaglione Garibaldi.

In Spagna, nel clima di disordine dell’estate-autunno 1936, i primi reparti di volontari si ritrovarono spesso male armati, poco addestrati. «Ad Albacete siamo stati lì un buon mese, per la preparazione militare, che era fatta in un modo abbastanza primitivo: prima di tutto mancavano le armi, si faceva l’istruzione con armi di legno con la bretella» raccontava Romeo Nesa, 24enne di Lugaggia, gessatore, che in Spagna perse un braccio. «Si imparavano i movimenti, nascondersi, fare una trincea». L’armamento era scadente. «C’era dentro di tutto: armi messicane, vecchie armi del 1914-18, svizzeri e francesi. Ci hanno dato 150 munizioni».

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Romeo Nesa nel 1976, in un fotogramma del documentario RSI

Settembre 1936: il fronte del Monte Pelato

Il passaggio dall’addestramento al fronte era rapidissimo.
Elio Canevascini da Barcellona con gli anarchici nella Colonna Ascaso raggiunse le alture sopra Huesca, battezzate come Monte Pelato: «Il tragitto fu drammatico: ricordo che il treno Huesca-Barcelona improvvisamente si fermò a poca distanza dalle nostre linee e da quelle franchiste. Era ormai sera e un anarchico della Colonna ci disse che avremmo dovuto passare la notte dentro il vagone. Quando calò il buio cominciò un bombardamento intenso, proprio nella zona della stazione di Tardienta dove avremmo dovuto alloggiare. La mattina trovammo case sventrate e morti».

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 Elio Canevascini al posto di soccorso del Monte Pelato, settembre 1936 (foto Fondazione Pellegrini-Canevascini)

I ticinesi nelle Brigate Internazionali in Spagna

Il sedicenne Eolo Morenzoni – arruolato nelle Brigate Internazionali – finì in prima linea in mezza giornata: «Alle 5 di sera ci danno un fucile, veniva dal Messico. Poi partiamo di notte: alle 4-5 del mattino si comincia a sparare contro, ho tirato il primo colpo e il rinculo mi ha fatto cadere».

L’armamento era scarso e l’addestramento «primitivo», ma soprattutto nei primi mesi la determinazione ideologica e l’entusiasmo fecero cogliere risultati militari importanti alle prime formazioni internazionali, tra cui la colonna italiana che diviene Battaglione Garibaldi.
Il lungo ciclo di combattimenti sul fronte di Madrid dal novembre 1936 al luglio 1937 si rivela il momento più fortunato dal punto di vista militare, grazie al fatto che “l’accordo politico tra le diverse anime (tra le principali: comunista, socialista, anarchica, giellista, repubblicana) tiene”.

Bastava poco per morire: «Il nostro servizio – ricordava ancora il medico Canevascini – era molto primitivo. Chi veniva colpito al ventre o a un vaso moriva. Gli ospedali erano a diversi chilometri».

Alla Battaglia della Casa de Campo – novembre 1936 -i ticinesi si fecero valere nella squadra d’assalto La terribile: tra i caduti ci sono Miro Rodoni, scalpellino, e Numa Rossi, entrambi partiti da Biasca.
Il meccanico luganese Mario Signorelli morì nel dicembre 1936, per cancrena in seguito alle ferite riportate. Numerosi altri furono feriti, come nel caso di Antonio Albertoni da Cadenazzo, che combatteva con la colonna anarchica Hilario Zamora e poi con il battaglione Garibaldi: per ferite fu trasferito in ospedale in Francia.

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Mario Signorelli

Le divisioni e la delusione

Se l’idea della lotta contro il fascismo aveva scaldato i cuori di tanti e di idee diverse – anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani – la realtà della Spagna finì a deludere alcuni: anche i volontari scoprirono gli eccessi di violenza e le divisioni del campo antifascista.
Se ne accorse già dai dettagli il giornalista Vinicio Salati, spirito libero e irrequieto: «Il lasciapassare [per circolare a Barcellona] doveva portare ben visibili i timbri di tutti i partiti. Ho così capito, con mio grande disappunto, che non c’era quella unità proletaria che ho sempre sognato, di operai fratelli», raccontava nel documentario RTSI del 1971.

Le divisioni nel campo repubblicano culminarono a maggio 1937 nella violenta repressione degli anarchici e dei trotzkisti del Poum da parte dei comunisti stalinisti (le “giornate di maggio” ricordate da opere celebri come Omaggio alla Catalogna di George Orwell o il film di Ken Loach del 1995 Terra e Libertà).
«Quando partii ero convinto di andare a combattere contro i nemici e tutti coloro che avevano distrutto la Repubblica spagnola, primo fra tutti il giovane generale fascista Franco» scrisse anni dopo Elio Canevascini. «Ma una volta in Spagna mi resi conto che nel fronte antifascista spesso venivano considerati alla stregua di nemici anche coloro che combattevano per la democrazia». Anche l’entusiasmo «straordinario» della colonna italiana finì «stroncato dall’assistere a quelle desolanti ed autolesioniste lotte intestine» che animavano sopratutto gli spagnoli.  In Svizzera i giornali anarchici denunciarono “la manovra controrivoluzionaria eseguita dagli staliniani”, come scrisse Il risveglio anarchico, il giornale pubblicato dai libertari di lingua italiana a Ginevra, polemico già da anni contro il bolscevismo.

Alcuni dei volontari, per ragioni diverse, lasciarono presto la Spagna. Per delusione Salati, per personale senso di inadeguatezza lo studente Canevascini (che nella Seconda Guerra Mondiale diventerà invece abile chirurgo di guerra con i partigiani di Tito).

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  Fronte del Monte Pelato, settembre 1936: Elio Canevascini posa dietro una mitragliatrice (foto Fondazione Pellegrini-Canevascini)

Altri ticinesi condivisero fino all’ultimo le sorti dell’esercito repubblicano, fino alla sconfitta finale e alla retirada verso la Francia: il già citato Lonati e Stefano Marci di Biasca, comunisti, finirono nel tremendo campo d’internamento francese di Argelès-sur-mer.

Rimase in Spagna fino all’ultimo anche una delle due donne volontarie venute dal Ticino: Vincenzina Fonti, nata a Lugano da famiglia (socialista) venuta dalla Puglia, infermiera e compagna di Aldo Morandi. L’altra donna era Graziella Berta, infermiera diplomata  che prestò servizio sanitario tra l’agosto del 1937 e il giugno del 1938 all’ospedale di Ontinyent, vicino a Valencia (la sua storia è stata ricostruita recentemente da Renato Simoni).

Processati al rientro: le condanne dei volontari ticinesi in Spagna

Al rientro in Svizzera i volontari subirono processi e condanne. Il clima era tutt’altro che favorevole anche in Ticino: se le testate socialiste difendevano la causa repubblicana, i giornali conservatori dipingevano i volontari come “disgraziati che hanno lasciato il Ticino democratico e libero per far causa comune con incendiari di chiese e conventi, massacratori d’ostaggi, profanatori di tombe”.

I giovani rientrati dalla Spagna finivano accusati per la violazione dei due Decreti federali dell’estate 1936 e dovevano fronteggiare anche l’accusa di  “Indebolimento della forza difensiva del paese”, dal momento che si erano sottratti (realmente o dal punto di vista teorico) ai regolari richiami previsti dall’esercito svizzero.

«Venivo da Parigi: al mattino alla posta delle 9 c’era la convocazione alla Polizia» ricordava Eolo Morenzoni. «Il delegato di polizia, un uomo di estrema destra, mi ha interrogato, mi ha forse anche un po’ insultato, mi hanno messo in prigione per sette giorni», a fronte di una sentenza di condanna a 50 giorni.

Battista Vigizzi da Locarno – che prestò servizio anche nei servizi sanitari con Giustizia e Libertà – fu condannato a sei mesi. Il muratore Stefano Marci fu condannato in contumacia a tre mesi (ma finì a scontare solo tre giorni, al suo rientro). Il socialista Adelcisio Sassi da Balerna si fece cinque mesi di fortezza a Zurigo.
Nel 60% dei casi al carcere s’accompagnò poi un periodo di privazione dei diritti civici per periodi che potevano raggiungere anche i cinque anni

I monumenti ai volontari svizzeri in Spagna e la riabilitazione dopo 70 anni

Come sottolinea uno studio di Silvano Gilardoni, “a diverse riprese, personalità politiche chiesero in parlamento l’amnistia e più tardi la riabilitazione, ma invano”. Per la Svizzera del Dopoguerra la Spagna franchista restava un baluardo anticomunista e i miliziani antifascisti vennero comunque a lungo considerati dalla Confederazione come mercenari o sostenitori del comunismo.

Il movimento operaio e socialista però decise di ricordare lo stesso chi aveva combattuto contro il fascismo: già nel 1956 venne innalzato un monumento al Monte Ceneri, luogo simbolico del socialismo ticinese.

Dopo la caduta nel franchismo e il ritorno alla democrazia, nel 1983 fu svelato un secondo monumento a Biasca, sulla strada per il Gottardo: un mosaico (foto a sinistra: Cristina Del Biaggio) per ricordare tre volontari del paese che combatterono in Spagna. Fu realizzato  in una piazzetta in via al Torchio, su un muro privato: il Consiglio comunale aveva infatti respinto l’idea di un ricordo pubblico (nel 2012 l’assemblea municipale ha poi rivisto la decisione).
Arrivarono poi monumenti e dedicazioni anche nel Vallese e nel Giura, a Ginevra e a La Chaux-de-Fonds.

In un Paese che non combatte guerre da cinque secoli, quelli ai volontari di Spagna sono degli insoliti, quasi unici monumenti ai caduti. L’ultimo dei tre monumenti in Ticino è quello a Castel San Pietro: è stato inaugurato nel 2010, a ricordare due volontari caduti in Spagna (Luigi Giacinto Maspoli e il meccanico ciclista Enrico Medici) e un terzo (il muratore Francesco Caspani) rientrato in Svizzera e scomparso nel 1981. 

Generica 2020

Disegnato dall’artista ticinese Gianni Realini (che già aveva lavorato a Biasca) e realizzato da Alberta Jacqueroud, il monumento di Castel San Pietro ha la forma di un mosaico astratto, ben lontano da una retorica che di certo poco si addice agli svizzeri.
Venne inaugurato pochi mesi dopo che – il 1° settembre 2009 – era entrata in vigore la legge che finalmente riabilitava gli svizzeri che avevano combattuto repubblicani in Spagna, senza “risarcimento del danno né a indennità a titolo di riparazione morale”.

In totale furono 815 i combattenti svizzeri in Spagna, 170 di loro morirono in battaglia. I ticinesi in armi furono ottanta: l’ultima, più aggiornata ricerca (qui) ha identificato sedici tra caduti e dispersi.
Dal 2009, con la Legge di riabilitazione, non sono più trattati come avventurieri e criminali. Giovani uomini che nonostante le contraddizioni e le delusioni furono –  come recita il monumento a Ginevra – “pionieri lungimiranti nella difesa della democrazia”.

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 26 Settembre 2021
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