L’ospedale dentro la città, “un modello da difendere anche a Gallarate”
Il medico Silvana Baldini ha lavorato per anni al Centro Sclerosi Multipla. Oggi guarda con preoccupazione al destino del Sant'Antonio Abate. E difende l'ospedale in centro "in termini di relazioni e inclusione"

«L’ospedale dentro la città è un modello da difendere». Ne è convinta la dottoressa Silvana Baldini.
Neurologa, ha prestato servizio per anni al Centro Sclerosi Multipla, reparto di eccellenza a livello nazionale e attivissimo nella ricerca clinica e nell’utilizzo delle più avanzate terapie.
Silvana Baldini guarda con preoccupazione all’indebolimento del presidio ospedaliero di Gallarate e anche alla prospettiva dell’ospedale unico. «Ormai si lavora con personale ridotto all’osso» racconta. Nonostante abbia lasciato il servizio al Sant’Antonio Abate ormai da qualche anno («Ho lasciato prima, giusto due mesi dopo l’annuncio dell’ospedale unico»), è rimasta in contatto con il reparto: «I pazienti complessi, come ad esempio i pazienti colpiti da Sclerosi multipla e da SLA, hanno bisogno di un pool di professionisti articolato. E oggi questa dimensione soffre di un progressivo depauperamento».
Baldini oggi lavora in un hospice, occupandosi di fine vita e cure palliative (è anche candidata come consigliere comunale, con la lista Città è Vita a sostegno di Margherita Silvestrini). Nonostante una cera ritrosia per le modalità elettorali, parla proprio pensando alle scelte politiche che si faranno sull’ospedale unico, temendo il rischio di un abbandono del polo centrale di Gallarate. «È vero: è un vecchio modello, ma è anche un modello di ospedale ancora dentro al tessuto cittadino che reputo prezioso. Perché un ospedale inserito all’interno di un tessuto urbano consente un’osmosi continua con la città, penso ad esempio al volontariato ospedaliero e sociale, alla possibilità di visita dei parenti».

Cita l’Ospedale Maggiore, fondato da Francesco Sforza nel 1451 dentro l’abitato di Milano, come radice storica di «un modello che rientra in una grande tradizione lombarda e, secondo me, ha ancora un suo perche’ in termini di relazioni e inclusione».
«L’ospedale rimane un prolungamento della città, non un corpo a sé stante. Questa è una dimensione che è già stata in parte persa per l’emergenza Covid, ma che si rischia di approfondire con un trasferimento fuori dal tessuto della città».
E questa prospettiva – sottolinea Baldini – è aggravata dal vero tema rimosso dal dibattito: «L’ospedale unico è ancora là da venire, ma i servizi si stanno indebolendo già oggi».
Il tema sta emergendo già forte ora, con gli accorpamenti di reparti tra Busto e Gallarate, la riduzione “emergenziale” (per il Covid) di servizi come la riabilitazione, i problemi che “a cascata” si riverberano da un ospedale all’altro, come nel caso della riduzione di organico di anestesia che ha provocato come conseguenza la chiusura della chirurgia oculistica al Bellini di Somma Lombardo (che pure è chirurgia programmata).
Il caso del Bellini sta creando preoccupazione nella zona intorno a Somma Lombardo: non solo i sommesi ma anche gli abitanti dei dintorni sono affezionati a quella struttura che nel tempo aveva riplasmato la sua funzione in senso ambulatoriale e di servizi (sono anni che non ci sono più pronto soccorso e maternità).
Il modello dell’ospedale nei centri storici è finito del tutto o si può ridefinire? La dottoressa Baldini cita il modello della “casa della salute” che accorpa e aggrega servizi dentro negli abitati.
E cita un caso specifico che conosce da vicino: «È quello dell’ospedale di Pieve Santo Stefano (Arezzo, ndr) divenuto appunto Casa della Salute: qui nella struttura si trovano la residenza per anziani RSA, la RSD per i disabili, gli ambulatori dei medici di base, un centro prelievi, gli ambulatori degli specialisti a rotazione. E in questa fase anche il punto tamponi». Dal 2013 è questo il nuovo assetto dell’ospedale locale, nato nel lontano 1874.
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