Cento anni di Teatro del Popolo: il 30 ottobre 1921 apriva il palazzo dei lavoratori
Un palazzo vero, disegnato dal miglior studio della Gallarate di allora. In un secolo ha vissuto la furia fascista, la trasformazione in una palestra di pugilato, poi la rinascita. Tra le sue mura anche storie che raccontano un secolo della città
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Un vecchio cortile, un portone ombroso, non bastava più, ai lavoratori gallaratesi.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, ora che le masse erano divenute protagoniste della Storia, il movimento dei lavoratori meritava di più, anche a Gallarate: fu così che tra 1920 e 1921 gli operai di Gallarate costruirono la loro casa – la Casa del Popolo – nelle forme di un vero palazzo, con tanto di salone, affacciato sulla via Palestro.
Fu inaugurato il 30 ottobre del 1921 e ancora oggi sta nel centro di Gallarate: l’intero edificio oggi è ricordato come Teatro del Popolo e festeggia un secolo di attività, con un grande concerto che sancisce anche la nuova funzione, quella di sede del Conservatorio cittadino.
Il movimento dei lavoratori a Gallarate si era già strutturato nel 1883 con la nascita della Lega “Figli del lavoro”, poi nel 1901 si era costituita la Camera del Lavoro: la allora Cgl (senza i) ebbe una primissima sede in un cortile di vicolo Zella (oggi scomparso, era laterale a via dei Fiori, nella zona più umile del borgo).
Anche a Gallarate l’inizio del secolo vedeva un’aspra competizione tra le diverse anime del movimento, tra i sindacalisti rivoluzionari e i riformisti, con alterne vicende. Nel 1905 la guida passò al bolognese Giovanni Bitelli, che animò scioperi e iniziative affiancato anche dalla determinata moglie Ines Oddone, maestra. Nel 1907 nacquero il giornale La lotta di classe, stampato in 3mila copie, e la cooperativa di consumo “Emancipazione”: si iniziò a pensare ad una grande casa per il proletariato gallaratese.
Il progetto maturò dopo la Grande Guerra e a raccontarne la genesi sono spesso proprio le pagine di La lotta di classe, che accanto agli scioperi narrava anche i sogni di una massa che non voleva più essere solo plebe china all’opera, ma – appunto – divenire una classe sociale consapevole. Gli operai volevano il pane ma anche le rose: i diritti sul lavoro, ma anche il miglioramento della cultura, una capacità di esprimersi, di rappresentare i propri valori e simboli. Affinché si verrà più istruiti, come si legge in un documento alle origini di un’altra casa del popolo poco lontana, quella di Cardano al Campo.
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Nell’aprile del 1920 in un articolo sul giornale La lotta di classe l’edificio aveva ancora le forme di un sogno: «A pian terreno avremo il salone-teatro con atrio, portineria e scala che conduce agli uffici dei piani superiori» scriveva l’articolista. Ma nel maggio del 1920 il sogno era già più concreto, con l’apertura della pratica edilizia a maggio e l’avvio successivo dei lavori sulla via Palestro, allora una breve via di città, che già all’incrocio con la via Marsala si trasformava in una stradina di campagna.
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Un simbolo per i lavoratori di Gallarate
La pratica edilizia al Comune di Gallarate ci racconta che il progetto fu affidato all’apprezzato “Studio d’Ingegneria e Architettura Filippo Tenconi e Carlo Moroni”, che aveva firmato i più prestigiosi edifici costruiti in Gallarate dall’inizio del Novecento.
Dopo aver disegnato ville con torretta e palazzi Liberty, ora quello studio disegnava un edificio per i lavoratori. Non più pochi locali recuperati in un malsano cortile del borgo, ma “un palazzo urbano”, con forme e decorazione che non si discostano “da quelle realizzate per le famiglie più ricche della città”, come sintetizza efficacemente Marzia Chierichetti nella sua tesi di laurea dedicata all’archeologia industriale e allo studio d’architettura gallaratese d’inizio secolo.
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Nel giro di poco più di un anno – sotto l’attenta direzione del geometra Bidorini, alla guida della apposita Cooperativa Edificatrice – l’edificio era pronto. Lo avevano finanziato interamente i lavoratori, donando le loro giornate: si andava dalle 49 lire delle Operaie Ditta Andreazza e Castelli di Samarate alle quasi 4mila raccolte dagli operai della Majno, il più grande opificio della città.
Nel progetto definitivo la Casa del proletariato comprende “un salone-teatro, con atrio e portineria, da tre locali per la Cooperativa di Consumo, di un porticato, di una sala per riunione, di una sala di lettura, di diciassette locali per uffici e di tre locali d’abitazione per il custode” . Il simbolo con monogramma della Casa del Popolo donava un tocco di eleganza, ma negli spazi del teatro non c’era alcuna differenza di classe: scompariva la distinzione tra la platea, i palchi e il loggione che invece scandiva le gerarchie sociali nel Teatro Condominio aperto nel 1865 per iniziativa delle più eminenti famiglie.
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La breve stagione e l’assalto fascista
La cultura non era più una concessione borghese, ma una iniziativa dei lavoratori: come ricorda una recente scheda creata dal FAI Seprio, il teatro iniziò ad ospitare fin da subito gli spettacoli della compagnia filodrammatica della Casa del Proletariato e quelli di altre compagnie lombarde, oltre ad alcuni memorabili – secondo i resoconti della stampa del tempo – spettacoli lirici, come la Norma e la Lucia di Lammermoor nell’aprile e nel maggio del 1922. Il teatro doveva “divertire e insegnare, migliorando il livello culturale della massa operaia […] cercando di fare della cultura un polo di attrazione per il miglioramento della forza di coesione e della presa di coscienza degli operai”. Oltre al teatro c’erano anche i balli pubblici nei giorni festivi.
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I fasti della Casa del Popolo erano però effimeri: tra 1921 e 1922 i socialisti, che fino a poco prima avevano l’iniziativa (guidati dall’avvocato Francesco Buffoni, rivoluzionario, “massimalista”), si trovarono a doversi difendere, disorientati di fronte alle scorrerie dello squadrismo fascista e alla colpevole inerzia dello Stato.
A settembre arriva il giorno nero anche per la Casa del Popolo gallaratese: i carabinieri portano l’ordine di lasciare l’edificio e pochi minuti dopo “una massa di colpi di rivoltella sparati contro le finestre e degli urli scomposti” annunciano l’assalto fascista. “Rotti i vetri della finestra della portineria, forzata la saracinesca dell’entrata principale e la porta di via del Popolo i fascisti sono entrati furiosamente […] tutto quanto è distruttibile viene schiantato […] buttato sulla via e poi incendiato”, come racconta ancora La lotta di classe del 17 settembre 1922.
Il pugilato e il ring sul palco
È la fine: la Casa del Popolo passa ai fascisti, che per vent’anni ne fanno una delle loro sedi, mentre alcuni locali diventano abitazioni.
Dopo il 25 aprile e la Liberazione tornano i socialisti, ma solo per qualche settimana, poi il patrimonio passa al Comune. Altri spazi vengono ridotti ad appartamenti, mentre dal 1956 il teatro diviene palestra di pugilato “Ausano Ruggeri”, con il ring sul palco e i camerini che diventano spogliatoi per i giovanili. Il corpo dei giovani pugili, intravisto fugacemente, crea turbamento nel giovanissimo Franco Buffoni, mentre accompagna la madre che sale in casa di una sartina che lavora ai piani superiori.
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Memoria di una città
Destinato a divenire grande poeta, Buffoni racconterà di quei giorni nel libro “La casa di via Palestro” (ma anche in una poesia evocava «Il tombino ovale con il gallo / Della palestra di pugilato»).
Nel libro pubblicato nel 2014 c’è anche un passaggio dedicato a Clara Pirani, la moglie del professor Cardosi preside della scuole di Gallarate: di fede ebraica, fu una delle due vittime gallaratesi della Shoah, assassinata nelle camere a gas nel 1944 ad Auschwitz-Birkenau.
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Dal 1938 il fascismo aveva schedato tutti gli ebrei (anche in provincia di Varese) e – quando arrivò l’ordine dei nazisti – un solerte funzionario di polizia italiano la fece portare in Questura a Varese, da dove fu deportata in Polonia. «Vi stringo tutti al cuore e vi bacio tanto tanto. Salutatemi tutti» scrisse alle figlie, che nel 2005 diedero alle stampe un libro per raccontarne la storia.
Dal 2007 sul muro del Teatro in via del Popolo c’è una targa per Clara Pirani, posta accanto all’ingresso della sede della Cgil: il sindacato tornato all’ex Casa del Popolo negli anni Settanta, dopo un aspro confronto con il Comune, per chiarire la proprietà degli spazi.
Due associazioni gallaratesi stanno lavorando oggi per posare qui una “pietra d’inciampo”, il simbolo ideato dall’artista tedesco Gunter Demnig per segnalare l’ultimo luogo di residenza delle vittime del nazifascismo.
La riapertura del Teatro e l’arrivo del Conservatorio
Il Teatro del Popolo ha riaperto nel 2006, restaurato dall’amministrazione Mucci, in una stagione in cui Gallarate sembrava volersi riappropriare con forza del ruolo di piccola città di cultura, in qualche modo diversa.
Dopo la riapertura i destini sono stati altalenanti: dagli anni in cui era attiva una scuola di teatro si è passati ad una fase meno fortunata. Fino al 2017 , quando Gallarate si guadagnò una poco onorevole (ma molto poetica) ribalta nazionale, quando l’attore Giovanni Mongiano ha recitato in una sala completamente vuota, trasformando l’assenza in un atto di amore per il teatro.
Domenica 31 ottobre 2021 – nel centenario dell’edificio – s’inaugura sulle note del tango a seconda sede cittadina del “Puccini”, l’istituto musicale divenuto Conservatorio da pochi mesi, a cui il Comune ha affidato il teatro.
Il “Puccini” occupa buona parte dello stabile su via Palestro, ancora oggi confinante con la sede della Camera del Lavoro gallaratese, gli spazi della Cgil con ingresso da via del Popolo. All’ingresso una targa posta nel 2003 ricorda un’altra vittima dell’odio e dello sfruttamento: il muratore rumeno Ion Cazacu, bruciato vivo dal suo datore di lavoro in una casa di ringhiera in periferia, nel 2000.
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Questo articolo fa parte della serie “Gallarate la città costruita”, che racconta la città di Gallarate attraverso alcuni edifici. Tutti gli articoli qui
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