Processo Molina, Airoldi e Campiotti parlano e si difendono in aula
Gli imputati del processo per peculato spiegano le dinamiche che portarono all’accensione dei prestiti
Da una parte un’emittente di provincia in difficoltà che vuole sfruttare il rilancio dei suoi asset per accedere a mercati più grandi attraverso l’interessamento di investitori venuti apposta dalla Cina, controllati a quanto pare dalla Repubblica Popolare, per vendere.
Dall’altra una Fondazione (Molina) che ha troppi soldi in pancia e che spaventata dalla possibilità dei “bail-in” bancari dove era depositato il tesoro (circa 10 milioni in liquidità) , che per sottrarlo al rischio di trovarsi in mano un pugno di mosche intende investire. In mezzo dunque c’è l’opportunità di trarre vantaggio gli uni dagli altri con investimenti che avrebbero reso, in un momento in cui tassi d’interesse bassi e opportunità di mercato rappresentavano un’occasione da non perdere.
Si sono difesi così, di propria sponte, accettando di farsi sentire in aula Christian Campiotti, ex presidente di Fondazione Molina e Lorenzo Airoldi, imprenditore televisivo ai quali la procura di Varese contesta i reati di peculato e concorso in peculato. Gli episodi sono l’oramai famosa sottoscrizione da parte di Fondazione Molina di un prestito obbligazionario convertibile in azioni da 450 mila euro emesso da “Rete55 Evolution” e di un secondo prestito sempre obbligazionario di natura ipotecari con la società Mata Spa (episodio ascrivibile al solo Campiotti) del valore di mezzo milione: non viene contestata l’onorabilità dei prestiti che sono stati rimborsati ma la liceità degli stessi ipotizzando la Fondazione come soggetto pubblico e quindi nell’impossibilità di impegnare soldi della collettività, integrando appunto il peculato.
«Le condizioni di mercato erano proibitive sul piano dei tassi: ai tempi i Btp erano, mi sembra, allo 0,7%, e con l’obbligazione sottoscritta avremmo ricevuto una remunerazione ben diversa, a tal punto che mi immaginavo già la targa alla memoria che mi avrebbe descritto come colui che avrebbe fatto spendere meno soldi agli utenti e preservato il capitale», ha spiegato Campiotti (difeso dal legale Pietro Romano) nella sua deposizione in aula, arrivata dopo la ricostruzione offerta da Airoldi.
Il manager di Rete55 (difeso dall’avvocato Stefano Bruno) ha ricreato la temperie del 2015, con problemi famigliari e la decisione di vendere ma anche l’occasione sorta dall’interessamento di un gruppo cinese che avrebbe rilevato le società del gruppo «quella di prima fascia, Rete55, è quella di fascia più bassa e più in sofferenza, cioè La 6», ha spiegato Airoldi nel rispondere alle domande del pubblico ministero Lorenzo Della Palma. Airoldi ha parlato a questo proposito dei contatti con Luca Galli, l’esperto di finanza ai tempi vicino alla Lega e allora alla guida di Fondazione comunitaria del Varesotto, ente di emanazione Cariplo.
«L’obiettivo era far entrare gli asset aziendali nell’operazione coi cinesi, poi sfumata per la tempesta mediatica sviluppatasi a seguito dell’indagine e alla costante presenza della guardia di finanza che ha fatto visita dieci volte in pochi mesi».
Le deposizioni, che hanno toccato anche le relazioni fra politica locale (le elezioni del 2016, successive però all’accensione delle obbligazioni, e il primo spunto investigativo giunto alla Procura di Varese da parte del sindaco di allora, Attilio Fontana) e accesso al credito – in un clima processuale non sempre tranquillo e dove in aula si è alzata anche la voce a differenza delle precedenti udienze -, sono state precedute dal racconto di un operante della Guardia di Finanza, teste dell’accusa, che ha ricostruito nel dettaglio sia la situazione debitoria del gruppo Rete55, sia l’impiego del prestito ottenuto da Mata spa.
Dopo cinque ore di udienza si avvicina il momento della sentenza che verrà pronunciata nei prossimi mesi dal Collegio presieduto dal giudice Andrea Crema. Ci saranno ancora testi da sentire – prevalentemente esperti e tecnici – , poi le discussioni finali e la decisione.
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